Il clima più caldo impoverirà la nostra tavola

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Il clima più caldo impoverirà la nostra tavola

L’aumento delle temperature avrà effetti negativi anche sulle specie vegetali, non solo quelle selvatiche. A rischio in particolare la resa dei cereali. Ne abbiamo parlato con gli esperti del Cnr.

L’aumento delle temperature avrà effetti negativi anche sulle specie vegetali, non solo quelle selvatiche. A rischio in particolare la resa dei cereali. Ne abbiamo parlato con gli esperti del Cnr.

Le campagne con il ciclo delle culture sempre uguale da centinaia di anni e i campi di grano giallo in estate che si estendono a perdita d’occhio, le foreste e i boschi, veri e propri monumenti alla forza della natura, simbolo vivente della millenaria capacità di adattamento e di resistenza alle avversità. Il paesaggio agroforestale rappresenta nell’immaginario collettivo da sempre una sorta di “fotografia”, un’immagine cristallizzata nel tempo e nello spazio per l’uomo che ha il privilegio di ammirarlo. Questa aura di immutabilità, però, è tutt’altro che reale e messa a serio rischio non solo dai deliberati atti criminali dei soliti ignoti, come gli incendi dolosi, o dalla inarrestabile crescita ipertrofica delle nostre città, avide di terreno, ma più in generale da ogni singolo abitante del pianeta. Il surriscaldamento globale, infatti, tra le altre cose, rischia di cambiare per sempre, e molto rapidamente, l’aspetto delle nostre contrade e di stravolgere la vegetazione delle colline e delle montagne.

Un numero su tutti: l’Italia è un vero e proprio scrigno di biodiversità vegetale visto che, secondo alcuni calcoli resi noti dalla Cia, la Confederazione degli agricoltori, possiede qualcosa come il 50% dell’intero patrimonio agroforestale dell’Europa. Ma la situazione, nella Penisola e, a dire il vero in tutto il mondo, sta cambiando proprio per colpa del global warming. Basta osservare come in molte aree la copertura vegetale stia modificando la propria distribuzione.

«Si pensi per esempio ai boschi di alta montagna. Ebbene, si stanno diffondendo a quote sempre più elevate. È vero che questo fenomeno è anche legato al progressivo abbandono da parte dell’uomo di queste zone impervie – spiega Giovanni Giuseppe Vendramindirettore dell’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del Cnr – ma ci sono inoltre chiare evidenze che i cambiamenti climatici stanno creando delle condizioni favorevoli alla loro diffusione dove prima, a causa principalmente delle basse temperature, non potevano crescere alberi. Lo stesso vale alle alte latitudini, dove l’aumento della temperatura e le modificazioni dei regimi pluviometrici, stanno favorendo la diffusione di alcune specie prima non presenti».  

«Il surriscaldamento globale, però, nello stesso tempo, sta mettendo a rischio la presenza di alcune specie in aree dove esse attualmente vegetano. Il dato certo – continua Vendramin – è che siamo di fronte a delle chiare modificazioni dell’areale di distribuzione di molte specie, principalmente con uno spostamento verso il nord d’Europa. Per questo diventa fondamentale indagare il modo in cui i cambiamenti climatici verranno affrontati da degli organismi come gli alberi che sono dotati di ridotta mobilità (attraverso la dispersione di polline e semi) per far fronte ai rapidi cambiamenti climatici attuali e, seconda cosa ma non meno importante, comprendere se la capacità di adattamento alle nuove condizioni sarà sufficiente a garantire loro la sopravvivenza».

Come se non bastasse vanno considerati anche gli effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura che sollevano questioni ancora più complesse legate in particolare alla necessità di sfamare una popolazione in rapida e costante crescita: secondo l’Onu nel 2030 saremo 8,5 miliardi e nel 2050 9,7. Anche in questo caso non si può non mettere in evidenza una situazione paradossale: le attività agricole, infatti, contribuiscono ma al contempo subiscono il cambiamento climatico. Secondo quanto riporta l’Agenzia europea dell’ambiente, l’agricoltura produceva il 10%delle emissioni di gas serra emessi dai Paesi dell’Unione nel 2012. Un vero e proprio salto di qualità rispetto al periodo precedente quando questa percentuale era del 24%.

Purtroppo, però, nel resto del pianeta le cose non vanno altrettanto bene visto che nello stesso periodo i gas serra prodotti dalle attività agricole sono aumentati del 14% per colpa in particolare dello sviluppo travolgente di alcune economie. Secondo una recente ricerca pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, l’organo ufficiale della United States National Adacemy of Sciences, l’aumento della temperatura danneggia in particolare la resa dei cereali, principale fonte di alimento al mondo. Basta un incremento di un grado Celsius per abbattere la resa del mais, a livello globale, del 7 per cento. Il rendimento globale del granocalerebbe invece del 6,0%, del riso del 3,2%, quello della soia del 3,1%. Per non parlare della desertificazione che sta aggredendo aree a latitudini sempre più settentrionali. Non a caso le regioni più a rischio “impoverimento” saranno quelle tropicali e dell’Europa meridionale, Italia e Spagna comprese.

D’altro canto è anche vero il contrario: l’aumento delle temperature sta avendo effetti positivi generali sulle quantità prodotte perché molti terreni prima sterili a causa del ghiaccio perenne sono adesso diventati fertili e adatti alla coltivazione dei cereali. È questo il caso di immensi distese in Russia. Adesso Mosca è il primo esportatore al mondo di frumento superando Ue e Usa. La produzione dovrebbe toccare la punta record di 80 milioni di tonnellate. Attenzione però, stiamo assistendo di fatto a un trasferimento delle colture da un Sud troppo caldo a un Nord che presenta miglior condizioni climatiche. Il rischio di estinzione di molti specie vegetali fondamentali per la sopravvivenza del genere umano alle nostre latitudini è concreto. Ecco perché diventa sempre più centrale salvaguardare la biodiversità per le generazioni future. A questo scopo sono state create le banche del germoplasma e in Italia è attiva una delle più antiche al mondo, a Bari, dipendente dal Cnr. Uno scrigno di biodiversità che vanta un patrimonio di circa 56 mila lotti di semi appartenenti a più di 100 generi e 700 specie. Una ricchezza inestimabile conservata a temperature comprese fra zero e -20 gradi, acquisita grazie a lunghe missioni di campionamento nei paesi del bacino del Mediterraneo o per mezzo di scambi con strutture analoghe di altri paesi.

Ne è convinto Gaetano Laghetticuratore della banca, che mette in guardia dalla vulnerabilità del sistema produttivo agricolo, eredità della rivoluzione verde. «L’aumento della produzione, ottenuto grazie alla diffusione di singole varietà, è stato ottenuto al prezzo di una crescente perdita della biodiversità, di un diffuso uso di pesticidi, di un forte degrado dei suoli e di una stretta dipendenza dalle multinazionali dei semi. L’omogeneità genetica delle colture è un vero tallone d’Achille perché in caso di malattia verrebbero distrutti interi raccolti. È capitato in Irlanda quando un fungo, la peronospora, che raggiunse il paese nell’autunno del 1845, eliminò un terzo circa del raccolto della stagione e l’intero raccolto del 1846. Poche decine di anni fa negli Usa, a causa di un’altra malattia fungina, si registrò un calo del 50% della produzione di mais. La salvezza venne da una varietà di mais africano il cui gene da allora è incorporato in tutte le varietà in commercio. Le banche del germoplasma sono una garanzia contro queste catastrofi, comprese quelle legate al cambiamento climatico: custodiscono i geni che in maniera naturale potrebbero salvarci».

Il rischio, più che teorico, è che si vada incontro all’estinzione di alcune specie che costituiscono spesso la base della nostra alimentazione. In questo senso la funzione di una banca del germoplasma diventa vitale, nel vero senso del termine. «Da tempo cerchiamo di individuare i genotipi che sono in grado di adattarsi meglio al cambiamento climatico. Non dobbiamo fare altro che consultare le nostre banche dati e individuare la varietà che si presta meglio allo scopo. In questi anni – conferma Laghetti – stiamo assistendo a un fenomeno preoccupante: se scattiamo una fotografia della coltivazione del mais in Italia, per esempio, si vede che le varietà che prima erano coltivate esclusivamente a Sud adesso si sono spostate più a Nord. Possiamo quindi prevedere che alcune colture che prediligono climi freschi si trovano a mal partito nel Meridione e siano destinate addirittura a scomparire. Per questo abbiamo per esempio reintrodotto il farro in Basilicata e in Molise: si tratta di un grano antico che produce di meno rispetto alle varietà moderne ma ha ridotte esigenze idriche, perfetto quindi in questa fase di scarse precipitazioni. In Puglia, invece, abbiamo proposto varietà di legumi come la cicerchia, il cece rosso il cece nero e una pseudo lenticchia nera che meglio si adattano ai cambiamenti climatici. Non abbiamo inventato nulla: è la stessa natura che ci fornisce le soluzioni a problemi di cui noi siamo la causa principale».

Giornalista, vivo di e per la scrittura da quattordici anni. Cresco nelle fumose redazioni di cronaca che abbandono per il digitale dove perseguo, però, lo stesso obiettivo: trasformare idee in contenuti.​