Perché non possiamo fare a meno di Taiwan
Una storiella americana – quasi una leggenda metropolitana perché di difficile attribuzione – racconta di una grande impresa manifatturiera, probabilmente una cartiera di Chic
Il lancio di Vision Pro di Apple ci proietta in maniera concreta nell’era della realtà immersiva. Con quali conseguenze? Changes ne ha parlato con Lorenzo Montagna, veterano del digitale in Italia.
Abbiamo avuto tutti un PC sulla scrivania, poi abbiamo messo tutti in tasca un cellulare, anni dopo nelle orecchie abbiamo infilato delle cuffie con filo e poi senza e infine abbiamo indossato dei visori ultratecnologici, capaci di proiettarci in una realtà virtuale e aumentata. Questo è almeno quello che dalle parti di Cupertino si augurano possa succedere presto, dopo la presentazione dell’Apple Vision Pro, il visore definito da Tim Cook come «la rivoluzione che ci introduce all’informatica spaziale».
Aldilà dell’altisonanti parole tipiche della retorica di Apple, la presentazione del visore costringe davvero tutti a guardare con interesse alla realtà virtuale (VR) e alla realtà aumentata (AR) e ad abbattere qualche pregiudizio di troppo. «Tra i più forti c’è quello che quando parliamo di realtà immersiva si pensa subito ai videogiochi. Sbagliatissimo, i loro campi di applicazione sono vastissimi e assolutamente concreti». A dircelo è Lorenzo Montagna, studioso di tecnologia dagli anni ’90 che nel 2017 ha fondato Seconda Stella, una delle prime realtà italiana ad occuparsi di web 3.0.
«C’è grande confusione quanto parliamo di realtà immersiva, occorre perciò chiarire le differenze – spiega Lorenzo Montagna -. La realtà aumentata aumenta il nostro mondo e quindi sovrappone il digitale al reale. La usiamo già oggi quando inquadriamo un QR Code, oppure quando usiamo un filtro sui social. Poi c’è la cosiddetta mixed reality che è come l’aumentata con in più una dose di interattività che consente per esempio di spostare oggetti, ingrandirli e interagire con loro. La realtà virtuale, infine, mi fa fare cose che non potrei fare fisicamente, per esempio andare da un’altra parte immediatamente, oppure spostarmi nel tempo».
Lo ammetto: mentre ascoltavo la spiegazione di Montagna anche io sono cascato nel bias dei videogiochi, associando il visore a uomini in mimetica che sparano contro personaggi apparsi dal nulla o zombie emersi dalla terra. «In realtà – dice Montagna – le tecnologie immersive intrecciandosi con l’intelligenza artificiale, raccogliendo dati sfruttati per il machine learning si stanno imponendo sempre più anche nel B2B, per esempio, nel campo della manutenzione degli impianti industriali o delle infrastrutture, ma anche delle video call dove la realtà aumentata e virtuale permette di organizzare incontri simili a quelli reali con un bagaglio di strumenti sempre più efficaci».
Dal punto di vista commerciale, inoltre, la realtà immersiva già da diversi anni si presta a utilizzi che trascendono il semplice test virtuale del prodotto. Lorenzo Montagna, che per Hoepli ha scritto Realtà virtuale e Realtà Aumentata, ci offre qualche esempio. «Marchi come Prada o Gucci sono all’avanguardia nel campo, facendo addirittura partecipare gli utenti alle sfilate o ad esperienze emozionanti come salire a bordo di Luna Rossa». Non a caso da più parti la realtà virtuale è definita come una empaty machine, una macchina da empatia che rivoluziona il rapporto cliente-marca in maniera sempre più immersiva. Pensiamo al design, che crea spazi in cui immergersi, oppure al settore del Real Estate dove «si permette al cliente di vivere un’esperienza diretta anche a chilometri di distanza». La realtà immersiva poi è usata anche nel campo artistico e culturale, si vedano le tante iniziative lanciate da musei o enti culturali con scopi divulgativi e l’obiettivo di rivolgersi a nuove nicchie di pubblico.
Ma dove finisce la comunicazione e inizia il business? «Tutte queste modalità di interazione puntano alla conversione in atti d’acquisto. A questo hanno aiutato anche i lockdown causati dalla pandemia che hanno consentito lo sviluppo dell’e-commerce e dell’m-commerce (il commercio via mobile). Oggi il tasso di conversione di chi usa queste tecnologie è del 70%, un dato altissimo».
Altro che videogiochi, insomma, attorno alla realtà aumentata, virtuale e mista ci sono settori in enorme espansione che oltre al marketing, spaziano dalla progettazione industriale, alla manutenzione predittiva degli impianti, all’intervento sulle infrastrutture. È forse questo lo scenario che ha convinto Cupertino a lanciare il primo prodotto veramente nuovo dopo il lancio dell’Apple Watch. Come nel caso degli orologi indossabili, anche in questo caso Apple non è stata la prima azienda a lanciare un visore, ma la sua ambizione è quella di essere la cosiddetta trend setter, cioè il punto di riferimento di un settore in espansione.
Il nuovo visore di Apple è il risultato di 10 anni di ricerca e di 5000 brevetti creati o comprati in 7 anni. Il suo lancio risponde all’obiettivo di Apple di “estendere” gli usi dello smartphone, proprio come fatto con gli orologi o con le cuffie. Hanno creato un device che si rivolge a un segmento di consumatori generico, non specialistico, proprio per far capire che la realtà immersiva non è qualcosa da tecnici o “smanettoni” ma può appartenere anche al grande pubblico”. Se non altro la sfida sarà quella di conciliare queste ambizioni con un prezzo molto elevato (secondo alcuni calcoli in Europa con le tasse potrebbe costare più di 4000 euro). Ma ancora una volta la mossa di Apple ha il merito di anticipare i competitor, “che ora inseguiranno declinando AR/VR ognuno sui loro punti di forza: Meta punterà a sviluppare queste tecnologie sul campo dei social network e del gaming, Google lo farà sul campo della geolocalizzazione, Microsoft invece punterà a potenziare il loro legame con l’intelligenza artificiale generativa (per es. Chat GPT).
Tuttavia, mentre i giganti si muovono, a noi rimane in sospeso una questione: sta nascendo davvero un uomo aumentato? Oppure alle porte c’è un uomo sempre più assistito e dai processi cognitivi infiacchiti? Secondo Lorenzo Montagna, «con queste tecnologie ho sicuramente un vantaggio: posso fare più cose, il problema è che se abbatto gli sforzi, mi alleno meno e quindi diminuisco le mie capacità». Come in molte altre questioni tecnologiche, insomma, il prezzo del multitasking rischia di essere per l’utente-uomo ancora una volta davvero salato.