Musica: TikTok è meglio della radio?

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Musica: TikTok è meglio della radio?

Per costruire un successo discografico il social media cinese è diventato un punto di riferimento. E questo vale anche per riportare alla fama canzoni del passato che diventano cult.

Ai tempi d’oro dell’industria discografica il meccanismo per trasformare una canzone in una hit, e un musicista sconosciuto in una star, seguiva un percorso rodato da decenni. Le major – ma anche le etichette indipendenti – investivano soprattutto nello scouting e nella promozione pubblicitaria e in particolare radiofonica, tempestando le emittenti di promo in anteprima (e talvolta pagando sottobanco i dj, pratica nota fin dagli anni ’50). Oggi la strategia è apparentemente molto più semplice: basta contattare un influencer quattordicenne su TikTok, chiedergli di fare un video con quella canzone e sperare nella botta di fortuna.

Con i suoi quasi due miliardi di utenti, dei quali il 40% composto da persone nella fascia di età tra i 16 e i 24 anni (da sempre la “demographic” di riferimento quando si parla di consumo musicale, che oggi significa sostanzialmente lo streaming), il social cinese di proprietà della holding privata ByteDance è diventato inevitabilmente la piattaforma più importante in assoluto dell’universo pop. Il trampolino dal quale un brano sconosciuto può diventare un successo planetario da centinaia di milioni di streaming, letteralmente dal giorno alla notte. Basta un video che improvvisamente, e per motivi del tutto imponderabili, diventa virale. E se non lo diventa subito, a volte è solo questione di metterci l’hashtag giusto. Ci sono ormai decine di case history al riguardo. Una delle più significative riguarda la canzone ABCDFU di Gayle, artista sotto contratto per la Atlantic. La cantante aveva accettato una delle classiche sfide (challenge) di TikTok: riuscire a scrivere una canzone d’amore usando l’alfabeto. Dopo un timido successo inziale, il brano è esploso quando è stata coinvolta la community del linguaggio dei segni, con il proliferare di video fatti in casa di persone che mimavano con le mani il “testo”.

Riscoperta del passato

Ma non sono solo le canzoni nuove a beneficiare dell’effetto TikTok. Ci sono pezzi del passato – evergreen o di culto – che improvvisamente tornano in cima alle classifiche e negli ascolti dei teenager grazie alla viralità tiktokiana. Un caso ormai celeberrimo è Dreams dei Fleetwood Mac, e in molti ricorderanno il perché. Si era agli inizi della pandemia – e se c’è un fattore che ha dato una spinta enorme al successo di TikTok è stato proprio il bisogno quasi disperato di consumare e produrre contenuti durante quegli angoscianti, interminabili lockdown – e sui social imperversava il video di un simpatico tizio latino-americano sullo skateboard che si faceva trainare da un camion, mentre beveva tutto contento il suo succo di mirtillo canticchiando per l’appunto Dreams. Altro esempio è It’s All Coming Back to Me Now di Celine Dion, difficilmente ipotizzabile come idolo della generazione Z. Almeno fino a quando qualcuno su TikTok non ha lanciato il trend di riprendersi mentre si fa la sincronizzazione labiale sulle parole del testo. In altri casi c’è invece la sinergia tra la app cinese e le piattaforme di streaming video e quindi il mondo delle serie tv: dalla Kate Bush di Running Up That Hill ai Cramps di Goo Goo Muck (presenti rispettivamente in serie amatissime dai giovani come Stranger Things e Mercoledì), anche in questo caso è evidente il ruolo di booster e amplificatore esponenziale di TikTok.

Calamita per la pubblicità

Tutto ciò spiega perché oggi, per etichette discografiche e musicisti, il social “dei balletti” sia diventato il terreno di caccia su cui concentrare il massimo degli sforzi e (soprattutto) degli investimenti promozionali. Da un paio di anni TikTok ha stretto accordi di partnership con le tre grandi major che si suddividono il mercato: Warner, Sony e Universal.  Va specificato che gli artisti, indipendentemente da quanto e come viene usato un loro brano, non percepiscono compensi direttamente da TikTok, che in realtà serve per rimandare gli utenti alle piattaforme che remunerano (per quanto con percentuali risibili) gli streaming e le visualizzazioni, prime fra tutte Spotify e YouTube. Sia queste ultime che TikTok, tuttavia, non sono music-companies, bensì tech-companies. Vale a dire che ricavano i loro profitti da abbonamenti e inserzioni pubblicitarie: contano i clic, non il catalogo musicale. Ma in un modello commerciale nel quale il supporto fisico tende sempre più a scomparire, in che termini guadagnano le case discografiche dal rapporto con una realtà – non solo diversa ma proprio agli antipodi dal loro business plan – come TikTok? Semplice: sperano di pescare il jolly e di ritrovarsi tra le mani idoli per teenager rispetto ai quali il costo di investimento è zero. Costoro verranno poi mandati in tour estenuanti che genereranno profitti grazie a biglietti e merchandising.

Rischio volatilità e trasparenza

Naturalmente c’è un rovescio della medaglia. Concentrarsi su TikTok come veicolo principale per non dire quasi esclusivo presenta vari elementi di rischio. Il primo è legato alla volatilità tanto dell’universo digitale quanto delle abitudini dei suoi utenti, che, come abbiamo visto, sono per la maggior parte adolescenti. Il secondo, ben più preoccupante, è la natura ambigua del social in fatto di trasparenza e di utilizzo dei dati personali, per tacere delle ventilate (ma sempre negate dalla proprietà) ingerenze del governo cinese. Da poco la Commissione Europea ha vietato ai suoi dipendenti l’utilizzo di TikTok sui dispositivi aziendali e quelli personali utilizzati per accedere alla rete interna. Identici divieti potrebbero essere emanati in un prossimo futuro da parte di altri organismi pubblici, anche se difficilmente si arriverà a una messa al bando totale. Finché l’app rimane disponibile negli store on line, significa che non rappresenta un reale pericolo, nel senso che non si tratta di una app-spia. Anche se l’opacità rispetto alla conservazione e all’utilizzo dei dati personali di due miliardi di utenti (tra cui 125 milioni di europei) qualche domanda dovrebbe farla sorgere.

Obbligo di presenza

Ma c’è un effetto problematico di altro tipo, che riguarda esclusivamente gli artisti. I quali si vedono costretti – spesso su diktat delle loro case discografiche – a essere presenti h24 su TikTok, con l’obbligo di produrre sempre più contenuti (canzoni, cover, remix) che potrebbero diventare virali, mantenere un contatto diretto con i fan, trovare il modo per procurarsi sempre nuovi follower senza perdere quelli acquisiti (cosa che su TikTok può capitare con la stessa rapidità con cui si diventa famosi). Un lavoro più da influencer che da artisti, che va a sommarsi alle incombenze che chi fa musica deve sobbarcarsi. Il rischio di “burnout”, insomma, è molto forte, tanto più dopo tre anni disastrosi come gli ultimi trascorsi.  Una preoccupazione manifestata da varie stelle del pop contemporaneo come FKA Twigs, Charli CXC e Halsey, le quali lamentano di essere ormai costrette a doversi curare più del proprio profilo su TikTok che del creare musica, pena le reprimende della propria casa discografica. Dove hanno lanciato il loro j’accuse? In un video su TikTok, naturalmente.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​