Ma la filter bubble esiste o no?

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Ma la filter bubble esiste o no?

Da anni gli esperti di mass media e social network si interrogano sulla questione: davvero Facebook, Twitter ma anche Google sono un mondo chiuso?

Da anni gli esperti di mass media e social network si interrogano sulla questione: davvero Facebook, Twitter ma anche Google sono un mondo chiuso?

Social network e motori di ricerca come Google ci rinchiudono in un mondo in cui veniamo a contatto solo con ciò che conferma le nostre opinioni, causando la crescente polarizzazione della società? La tesi della filter bubble, elaborata dal sociologo Eli Parisier nel 2011, sulla carta sembra molto solida: gli algoritmi che regolano il funzionamento dei social network sono infatti progettati per fornire agli utenti solo contenuti che aumentino il tempo trascorso sulla piattaforma e quindi – in linea di massima – in sintonia con la loro visione del mondo. Di conseguenza, se siete un elettore progressista, Facebook difficilmente vi mostrerà contenuti provenienti da testate troppo distanti dalle vostre credenze politiche.

Ma non è tutto: dal momento che noi tendiamo a interagire maggiormente con i post di amici che la pensano come noi (anche solo mettendo un like a un’opinione che condividiamo), il rischio è che l’algoritmo gradualmente escluda dal nostro newsfeed tutte le persone con cui siamo in contatto ma che hanno idee diverse dalle nostre.

In questo modo – invece di offrire agli utenti un’informazione diversificata – Facebook e compagnia non farebbero che mostrarci quello che vogliamo vedere, tenendoci ben al riparo da informazioni che potrebbero incrinare le nostre certezze e rendere la nostra esperienza sui social meno confortevole. Il risultato, seguendo questa teoria, è inevitabile: i social network ci fanno vivere in una bolla in cui tutti la pensano al nostro stesso modo, con il risultato che le nostre opinioni si sedimentano sempre di più, arrivando anche a radicalizzarsi e rendendo impossibile il dialogo con chi la pensa diversamente.

Ma le cose stanno veramente così? Prima di tutto, va segnalato che la tesi sulla filter bubble è estremamente simile a una teoria sociologica, precedente ai social network, nota come “The daily me”. Il concetto è semplice: non è solo chi sta sui social a vivere in una bolla. Tutti noi tendiamo a circondarci, da ben prima di internet, di amici, colleghi, giornali, programmi televisivi (e quant’altro) in linea con quelli che già sono i nostri valori. Si potrebbe chiamare “filter bubble della vita offline”. Da questo punto di vista, non molto sembra essere cambiato.

Secondo un filosofo come Luciano Floridi, il vero problema è che il web avrebbe dovuto rompere queste gabbie, mentre i social network hanno contribuito a rafforzarle: «Il digitale, per sua natura, ha la funzione di scardinare: è nel suo DNA. Stando online, è inevitabile incontrare opinioni differenti e persone che la pensano in maniera diversa», ha spiegato Floridi. «Attraverso la commercializzazione dei social network, motivata dalla pubblicità, noi abbiamo invece soggiogato il web. Lo ha ammesso lo stesso Zuckerberg quando ha affermato che Facebook dà ai suoi utenti solo ciò che vogliono». Più che creare dal nulla la filter bubble, i social network hanno quindi “tradito” le promesse dirompenti del web e rafforzato una dinamica già esistente.

Ma c’è chi è andato molto più in là nel ridimensionare la filter bubble. Secondo una ricerca del Reuters Institute, le persone che usano i social network a scopi di esclusivo intrattenimento (e che quindi non vanno su Facebook, Twitter & co. in cerca di notizie e informazioni) si informano comunque attraverso un numero di fonti quasi doppio rispetto a chi, semplicemente, i social media non li usa.

Negli Stati Uniti, per esempio, i “non utenti” dei social network si informano attraverso 1,8 fonti, mentre tra chi utilizza Facebook e le altre piattaforme il numero sale a 3,29. Ancora migliore, chiaramente, è la dieta informativa di chi utilizza i social network anche per leggere news e approfondimenti: tra costoro si arriva a 5,16 fonti per persona. Più fonti, ovviamente, non significa una maggiore diversità di opinioni. Ma, si sottolinea nello studio, «quando si ha a che fare con cifre così basse è probabile che ogni aumento nel numero di fonti porti necessariamente a un consumo più diversificato».

Altri studi, invece, hanno messo in dubbio anche il timore che la filter bubble ci renda più vulnerabili nei confronti delle fake news. In un paper pubblicato su Plos One, il ricercatore Kelly Garrett della Ohio State University ha mostrato come la credenza nei confronti di alcune delle fake news più note (per esempio, che Barack Obama sia musulmano o che il cambiamento climatico non abbia niente a che fare con l’attività umana) non fosse in alcun modo legata all’utilizzo dei social media. «I risultati suggeriscono che l’influenza dei social media su ciò che scegliamo di credere è abbastanza modesta», ha concluso il ricercatore.

C’è di più, perché recenti ricerche si sono spinte fino a sostenere che non sia vero che sui social network tendiamo a interagire soltanto con chi la pensa in maniera simile alla nostra. In un paper pubblicato dall’australiana Queensland University, i ricercatori scrivono: «Contatti provenienti da più disparati aspetti della vita personale di una persona – famiglia, amici, conoscenti, colleghi e altri – entrano in connessione e comunicano gli uni con gli altri in una maniera spesso incontrollabile». Di conseguenza, gli utenti andrebbero incontro a una grande varietà di visioni e opinioni contrastanti.

L’esperienza di ciascuno di noi, in effetti, sembra confermare questa tesi: quante volte ci è capitato di restare incastrati in infinite discussioni sui social network con persone che avevano un’opinione radicalmente diversa dalla nostra? Quale che sia la causa della polarizzazione dell’elettorato, la (presunta) filter bubble potrebbe quindi non essere il colpevole a cui addossare tutte le colpe.

Tutto bene, allora? Non proprio. Come noto, i social network hanno un ruolo importante anche nell’organizzazione dell’azione politica. Ma questo, purtroppo, vale anche per l’azione politica estremista e violenta. Uno studio recente ha infatti descritto i meccanismi che, in una nazione come la Svezia, traducono le interazioni sui social media in violenza (spesso di stampo xenofobo).

Nel periodo in cui lo studio è stato compiuto, la pagina politica svedese più seguita su Facebook era “Stand up Sweden”, di stampo ultranazionalista e con circa 170.000 membri. Secondo i ricercatori, comunità online così ampie ed estremiste rischiano di legittimare le azioni violente, attraverso il “reciproco riconoscimento” delle persone che la frequentano. Inoltre, sono anche in grado di creare un microcosmo informativo alternativo, che esclude e demonizza le opinioni considerate mainstream o istituzionali.

Ma perché i gruppi estremisti riescono ad attirare così tante persone proprio nell’epoca di Facebook? La ragione, spiegano sempre i ricercatori, è abbastanza intuibile: prima della nascita dei social network, era molto più difficile per i simpatizzanti di movimenti estremisti – ma lo stesso discorso vale per gruppi “alternativi” come quello antivaccinista – entrare in contatto tra di loro, il che riduceva nettamente le dimensioni dei movimenti e quindi la capacità di fare proseliti. Non solo: il filtro costituito da giornali, radio e tv eliminava quasi alla radice la possibilità che teorie come quella antivaccinista (o altre tesi estreme e complottiste) potessero emergere e raggiungere il grande pubblico.

Su Facebook e Twitter, invece, chiunque possegga un account può facilmente individuare e radunare persone con la sua stessa visione, indipendentemente da quanto questa sia malvista dalla società o tagliata fuori dai media tradizionali. Come si segnala nello studio, il più grande pericolo posto dai social network non è quindi l’isolamento, ma l’amplificazione. «Il lavoro di moderazione svolto dai media tradizionali contribuiva a mantenere il dibattito pubblico su toni civili e si assicurava che gli estremismi venissero marginalizzati».

I social network, quindi, non sembrano essere responsabili della filter bubble: la gabbia dorata in cui la nostra visione del mondo viene costantemente confermata. Allo stesso tempo, però, hanno dato diritto di cittadinanza a opinioni e visioni politiche che possono essere anche molto pericolose; facilitando la loro diffusione. Ormai, tutto ciò è stato ammesso anche dagli stessi social network, che stanno infatti cercando di correre ai ripari. Sperando che non sia troppo tardi.

Fonte: Getty Images

​Milanese, classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Esquire e altri. Nel 2017 ha pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti” per Informant Edizioni.