L’economia dell’attenzione

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L’economia dell’attenzione

Notifiche, chatbot, pianificazioni, social aziendali, il vivere costantemente in un “altrove digitale”, hanno modificato le abitudini con un impatto diretto sulla produttività.

Notifiche, chatbot, pianificazioni, social aziendali, il vivere costantemente in un “altrove digitale”, hanno modificato le abitudini con un impatto diretto sulla produttività ed attenzione .

Se fate parte di chat di gruppo su Whatsapp fate subito una piccola prova: soffermatevi su quando avete dato una comunicazione tipo «Ci vediamo giorno x a quest’ora e in questo luogo oppure quando ne siete stati i destinatari. Vedrete che, nonostante il messaggio sia chiaro, ci sarà sempre qualcuno (o voi stessi) che, ore dopo o i giorni successivi, piuttosto che scorrere indietro la chat, chiederà «Dove ci vediamo? E quando?» oppure, nonostante nessuna comunicazione negativa, chiederà «Ma allora ci vediamo?».

In parte un atteggiamento simile è figlio della pigrizia che si mescola al poco tempo. In una buona parte, è invece come se non ci fosse stato mai nessun messaggio. Cosa succede? Nella velocità della comunicazione, nonostante il messaggio sia arrivato a destinazione – la spunta blu di Whatsapp non perdona e comunque si può cliccare sul messaggio stesso per sapere chi l’ha letto – il contenuto si perde.

Se la velocità non favorisce il contenuto e mina l’attenzione


In un mondo sempre più veloce, raggiungibile e connesso, accade proprio questo: le cose arrivano sì, ma non sempre come vorremmo. Lo sa benissimo chi fa marketing e chi ha inventato i social media: la nostra attenzione è qualcosa di prezioso, ecco perché quello che ci sembra gratuito di fatto non lo è. Dietro i vari social, c’è una fondamentale merce di scambio: le nostre abitudini, il nostro modo di essere, le cose cui diamo importanza e quelle che invece non ci toccano neanche.

Non a caso da anni si parla di economia dell’attenzione perché nella nostra società, almeno inizialmente, ottenere attenzione è più importante che… fare soldi. Se un’azienda o un  professionista ottiene un po’ di attenzione ha già raggiunto il suo primo scopo: far fermare il potenziale cliente su quell’aspetto, ingaggiarlo e così portarlo a comprare.

L’attenzione, d’altronde è una “merce complessa”. Nel 1971, in tempi “non sospetti”, Herbert Simon, premio Nobel per l’Economia diceva: «L’informazione consuma attenzione. Quindi l’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione e induce il bisogno di allocare quell’attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare».
Un pensiero che è valido anche 46 anni dopo e che soprattutto è da valutare nel mondo del lavoro.

Tutte queste chat, i chatbot, i digital workplace con annesse ancora chat, notifiche, pianificazioni, i social aziendali, il vivere costantemente in un “altrove digitale”, dove stanno portando il mondo del lavoro? Questa attenzione che rimbalza tra continui stimoli aumenta davvero la produttività, ma soprattutto porta l’uomo a “lavorare meno, lavorare meglio”, come le tecnologie hanno promesso inizialmente? Cosa cambia, poi, nel modo di rapportarsi a colleghi, capi, clienti già acquisiti e quelli potenziali?

I social media hanno cambiato il nostro modo di essere persone


Sherry Turkle affronta il tema nel suo ultimo libro edito in Italia da Einaudi nel 2016, ponendo appunto l’accento sulla “reclaiming conversation” ossia “La conversazione necessaria”, che è anche il titolo del libro con sottotitolo “La forza del dialogo nell’era digitale”.
Un testo che parla di 15 anni di ricerche, arrivate a questa conclusione: «I social media non hanno cambiato come facciamo le cose, ma il nostro modo di essere persone. Quello che ho trovato intervistando varie generazioni è questo sentimento di “essere insieme da soli”. Lo siamo fisicamente, ma siamo connessi tramite device», ci racconta la Turkle via mail da Boston dove insegna Sociologia della scienza e tecnologia al MIT.

«Preferisco mandare messaggi che parlare» e così l’attenzione rimbalza costantemente


Aggiunge la Turkle: «Dopo avere lavorato per anni al progetto “Alone together’” in 15 anni di trascrizioni e note mi sono resa conto che c’era bisogno di un’ulteriore analisi di questi dati. Specie perché ciò che era venuto fuori e che aveva accomunato molti era questa frase: “Preferisco mandare messaggi anziché parlare”. Così – continua la Turkle – mi sono concentrata sull’analizzare la conversazione al giorno d’oggi e quello che ho trovato è che c’è una fuga da essa. Nelle famiglie, nell’educazione e nei posti di lavoro. Volevo capire perché succedeva, se aveva un costo e cosa doveva essere fatto».

La Turkle nel libro fa numerosi esempi di aziende che sì, sono negli States, ma le cui modalità non sono certe sconosciute in Italia. La socia di uno studio legale racconta come i più giovani siano sì efficienti e portino avanti i loro impegni giornalieri, ma lo facciano sempre chiusi nelle loro stanze, senza parlare con nessuno e lasciando tutte le comunicazioni alle mail. L’attenzione nel loro caso è solo verso il lavoro, che però riescono a portare a termine nonostante le varie distrazioni digitali e sacrificando il dialogo, magari con colleghi più anziani, che li aiuterebbero sia a crescere professionalmente che come persone. Così come – racconta sempre la socia – preferiscono parlare ai clienti via mail e telefono anziché vederli.

Ma gli esempi possono continuare: una società di software, nonostante abbia creato caffetterie aperte tutto il giorno e mini-cucine in modo che i dipendenti si incontrino, non è riuscita nell’intento di farli dialogare dal vivo tra di loro: il più delle volte prendono lo spuntino e lo portano alla scrivania. Ma paradossalmente, visto che questo “fa parte del lavoro”, non smettono mai di essere online sulla chat aziendale, rispondendo immediatamente a qualsiasi richiesta.

Così come c’è chi grazie allo smartworking e al fatto che la sua azienda tiene sempre meno gente in ufficio e più a lavorare a casa, fa continue riunioni internazionali, rispetta il programma, ma finisce con il dire: «La tecnologia mi permette di essere più produttiva, ma so che la qualità del mio pensiero ne soffre».

In riunione sì, ma per lavorare ognuno al suo computer


Alle riunioni la Turkle ha dedicato numerose ricerche: «Ho studiato molti meeting, dove per esempio, le cose vanno così: iniziano collegialmente con ogni persona che si saluta caldamente, prende insieme un caffè e un muffin, poi le persone aprono il loro laptop o Ipad e iniziano a mandare email (spesso continuando a farlo per tutto il tempo, ndr). Un buon leader in riunioni simili sa segnalare ai colleghi che hanno 5 minuti per portare a termine le loro mail ed essere presenti. Questo genere di meeting è lo stesso nel mondo dell’istruzione, negli studi legali, di consulenza, nell’industria. Sono riunione considerate efficienti, ma non reali conversazioni. Io li chiamo riunioni che non sono abbastanza riunioni».

Perché appunto iniziano come momenti di conversazione, ma spesso non vanno avanti così e questo può essere dovuto all’incapacità di concentrarsi su una cosa sola e sulle persone che si hanno davanti così come alla sensazione di avere troppo lavoro per potere stare lì a parlare. Allora tanto vale chiedere se è davvero necessaria la propria presenza – altrimenti sareste i primi a essere interessati – o segnalare fin dall’inizio un tempo massimo in cui si potrà restare.

Le conseguenze del centellinare l’attenzione


Tornando agli esempi lavorativi di cui sopra, questo centellinare l’attenzione tra mail, chat e la scelta a volte di non privilegiare la conversazione dal vivo finiscono con il non renderci davvero produttivi o quanto meno non nel senso più ampio del termine. Nello studio di avvocati, i giovani che non trovano il tempo per incontrare i clienti, non li aiutano a restare e a preferire quello studio a un altro.

D’altra parte, in un lavoro in cui la relazione è importante, vedere un volto, scambiare pareri in un ambiente più rilassato, aiuta a creare fiducia. Un cliente che si sente considerato e “accudito”, valuterà sicuramente quanto l’avvocato riesce a fargli risparmiare, ma si ricorderà anche di come è stato l’approccio e della sua capacità di empatia. Ma c’è di più: nell’incontro dal vivo – sia lavorativo che non – è determinante anche che il telefono sia silenzioso, spento, ma soprattutto non sia visibile sul tavolo.

Un device silenzioso o spento sul tavolo, dà l’impressione che comunque si possa essere disturbati in qualsiasi momento, non aiutando ad arrivare al nocciolo della questione e mantenendo il tutto sempre a un livello superficiale. «Io chiamo tutto questo scompiglio della soglia dell’attenzione». dice la Turkle «Quando permettiamo che questo avvenga paghiamo un prezzo alto soprattutto nell’empatia. Ci sono studi che dimostrano come negli ultimi 30 anni l’empatia sia diminuita del 40%».

Trovare dei minuti per parlare con i colleghi, con i capi, scambiarsi opinioni dal vivo non solo aumenta le connessioni, fa venire fuori idee che non ci saremmo neanche aspettati, ma fa anche risparmiare tempo e aumenta la produttività. Uno scambio dal vivo può portare ad avere una soluzione immediata a quel problema che si stava cercando di risolvere da soli, magari cercando su più fonti contemporaneamente e continuamente distratti da mail, chat aziendali, social ecc… tutto questo purché appunto l’attenzione sia sulla conversazione e non frammentata.

D’altra parte, come dice la Turkle: «Non diamo il giusto valore alla conversazione e alle relazioni sul posto di lavoro». Il fatto che non siano tra le mansioni previste dal contratto, ci fa pensare che possiamo farne a meno pur di rispettare quello che invece ci si aspetta dal nostro ruolo. «Delle ricerche dimostrano che i lavoratori nel nuovo ambiente digitale sono interrotti ogni 3 minuti. Ma le loro abilità di rielaborazione sono eccezionali. Essi completano i loro task e imparano a lavorare più velocemente per rimediare alle interruzioni. Ma queste compensazioni hanno un prezzo: i lavoratori hanno a che fare con più stress, frustrazione maggiore, tempi stretti e maggiore sforzo».

Quale soluzione?

«Il multitasking è un’invenzione», chiosa la ricercatrice, «sia nei contesti educativi che lavorativi e  bisogna riconoscerlo per quello che è. Non sta aiutando la produttività. La soluzione è semplice: educatori e leader di azienda devono essere onesti con loro stessi e con i loro lavoratori informandoli sulla psicologia del multitasking. Perché ci fa sentire bene, perché alla fine non aiuta. Ecco perché la conversazione è la cura».

E fare possibilmente dell’importanza dell’attenzione, dell’empatia e di conseguenza della conversazione un valore esplicito della cultura aziendale, portato avanti dagli stessi leader.

Se in futuro saremo sempre più connessi, ci saranno sempre più automatismi, quel che conta è che davvero la tecnologia ci porti a stare meglio. E questo può avvenire con uso consapevole, per evitare che risucchi tutta la nostra attenzione, permettendole di farci dimenticare degli altri, del “sentire” come stanno e come interagiscono, ma anche di noi stessi, di quello che siamo e di quello che vogliamo davvero. Quella vera consapevolezza, fondamentale per qualsiasi lavoro. Di oggi e del futuro.

Siciliana di origine, trapiantata a Milano, ormai la “sua città”. Giornalista, scrive di lavoro, economia e innovazione. Ama i social, tra tutti Twitter dove cinguetta ogni giorno.