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Gli straordinari progressi nel campo del machine/deep learning suscitano timore. Ma questi software non sono ancora in grado di pensare.
Gli straordinari progressi nel campo del machine/deep learning suscitano timore. Ma questi software non sono ancora in grado di pensare.
Gli straordinari progressi nel campo del machine/deep learning (la tecnologia alla base di ciò che oggi chiamiamo comunemente “intelligenza artificiale”) hanno suscitato tanta fascinazione quanti timori. Le macchine stanno diventando più intelligenti dell’uomo? Quanto tempo passerà prima che i software rendano l’umanità obsoleta? Osservando strumenti come Google Duplex, l’assistente virtuale in grado di prenotare al telefono il ristorante senza che nessuno si accorga di avere a che fare con un’AI, o AlphaGo, in grado di sconfiggere il campione del mondo di Go (il gioco da tavolo più complesso in assoluto), è inevitabile pensare che questa macchine siano diventate davvero intelligenti.
Le cose, invece, sono molto diverse: il fatto che un software impari a riconoscere se in una foto sono presenti dei gatti non significa che sappia che cosa sia un gatto; allo stesso modo, il computer che ha battuto Lee Sedol, il maestro di Go, non aveva la più pallida idea di che cosa stesse facendo (e lo stesso vale per lo storico esempio riguardante le partite a scacchi tra Deep Blue di IBM e Gary Kasparov). L’assistente Duplex creato da Google può fingersi umano; ma solo in determinate situazioni e a condizioni ben precise (sarebbe bastato chiedergli se qualcuno degli avventori soffrisse di allergie per mandarlo in crisi). Questi software, insomma, non sono in grado di pensare; sono semplicemente capaci di processare una quantità tale di dati da riuscire a metterli in relazione tra loro, identificando collegamenti e differenze in un paniere di dati o calcolando statisticamente, per esempio, quale mossa di un determinato gioco abbia la maggior probabilità di avere successo.
Non solo: ognuno di questi algoritmi è in grado di portare a termine solo ed esclusivamente il compito che gli è stato dato. Per riuscire nell’impresa, inoltre, deve essere appositamente istruito con centinaia di migliaia di esempi; mentre a un bambino di 3 anni, per esempio, basta vedere tre o quattro gatti per imparare a riconoscerli. Perché queste differenze? Perché le AI riescono a essere superiori a noi in compiti complessi come il Go o la diagnosi dei tumori della pelle, ma faticano in altri che per noi sono semplicissimi?
La principale differenza tra la nostra intelligenza e quella artificiale è che il cervello umano, come ha spiegato in più occasioni lo scienziato informatico Gary Marcus, è in grado di astrarre e di generalizzare quanto ha appreso grazie all’esperienza; mentre un network neurale di deep learning è ancora estremamente limitato sotto questi aspetti (il che spiega anche le difficoltà delle auto autonome). Al contrario, la straordinaria velocità di calcolo delle AI le rende in grado di superare l’uomo senza alcuna difficoltà nei compiti in cui può avere accesso a un enorme numero di dati. Le due intelligenze, insomma, sono molto diverse. Ma perché?
Partiamo dalle basi: il cervello umano è costituito da 100 miliardi di neuroni interconnessi tra loro attraverso 100mila miliardi di sinapsi. Numeri impressionanti, ma che potrebbero far pensare al cervello solamente come una macchina dotata di enorme potenza e di una impressionante capacità di problem solving. In un certo senso, in effetti, il cervello è simile a un computer: entrambi sono dotati di unità elementari (i neuroni da una parte, i transistor dall’altra) collegate attraverso complessi circuiti allo scopo di processare informazioni veicolate da segnali elettrici.
Anche le architetture del cervello e dei computer si assomigliano: entrambe sono costituite da circuiti dedicati all’input e output delle informazioni, all’elaborazione di queste e alla loro conservazione in memoria. Ma chi è più potente tra i due? Il computer, da questo punto di vista, gode di parecchi vantaggi, essendo molto più veloce del cervello a compiere operazioni basilari. I normali PC sono infatti in grado, mediamente, di eseguire 10 miliardi di semplici operazioni, come l’addizione, al secondo. Al cospetto, il cervello umano impallidisce: «Possiamo stimare la velocità di esecuzione del cervello osservando i processi elementari attraverso i quali i neuroni trasmettono informazioni e comunicano l’un l’altro», ha spiegato il neuroscienziato Liqun Luo. «La frequenza maggiore di impulsi neuronali è di circa 1000 picchi al secondo. (…) La più veloce trasmissione sinaptica impiega invece circa 1 millisecondo. Sia in termini di picchi, sia in termini di trasmissione sinaptica, il cervello può eseguire al massimo circa mille operazioni al secondo; dieci milioni di volte più lento di un computer».
Il computer gode di un altro vantaggio: la precisione. Senza addentrarci nei dettagli, si è calcolato che i sistemi informatici possono rappresentare quantità numeriche con una precisione che è milioni di volte superiore a quella del cervello umano, che deve fare i conti con quello che viene definito “rumore biologico”. Tutto questo, comunque, non significa né che il cervello umano sia lento, né che sia impreciso.
Considerate un giocatore di tennis: può seguire la traiettoria di una pallina dopo un servizio colpito a una velocità che raggiunge anche i 250 chilometri orari, scegliere la posizione ottimale per rispondere al colpo, posizionare le braccia e muovere la racchetta per rispondere al servizio. Una notevole quantità di calcoli eseguiti in modo preciso nel giro di qualche frazione di secondo. Adesso immaginate di far eseguire lo stesso numero di operazioni a un robot guidato da un normale computer; non riuscirebbe nemmeno a reagire al servizio.
Com’è possibile, considerando che un computer può compiere miliardi di operazioni al secondo? «Una differenza importante tra il computer e il cervello è il modo in cui l’informazione viene processata dai sistemi», prosegue Luo. Il computer esegue i suoi compiti soprattutto in maniera seriale. Ed è anche per questo che è necessaria una precisione così accurata: perché ogni singolo errore andrebbe a peggiorare la situazione a ogni passo successivo che il computer compie nelle sue operazioni.
Anche il cervello esegue calcoli in maniera seriale, ma soprattutto si affida al calcolo parallelo, avvantaggiandosi in questo modo dell’ampio numero di neuroni e di connessioni tra i neuroni. Restando all’esempio del tennis, il movimento della pallina attiva numerosi neuroni specializzati della retina, i fotorecettori, il cui compito è quello di convertire la luce in segnali elettrici. Questi segnali vengono poi trasmessi in parallelo a diversi tipi di neuroni presenti nella retina. Nel tempo in cui i segnali originati nei fotorecettori hanno attraversato due o tre connessioni sinaptiche nella retina, l’informazione riguardante il luogo, la direzione e la velocità della palla sono state estratte dai circuiti neuronali e trasmessi in parallelo al cervello. Allo stesso modo, la corteccia motoria (quella parte della corteccia cerebrale che è responsabile dell’esecuzione dei movimenti volontari) invia in parallelo i comandi necessari a contrarre i muscoli di gambe, torace, braccia e polso in modo che tutte queste parti siano simultaneamente posizionate nel modo migliore per ricevere la pallina da tennis.
Questa strategia parallela è possibile perché ogni neurone raccoglie input ed emette output a numerosi altri neuroni (in media circa mille, contro i tre nodi complessivi dei computer). Una proprietà che risulta estremamente importante proprio per assicurare la precisione complessiva dell’elaborazione dell’informazione: un singolo neurone può essere impreciso, ma la media degli input emessi da 100 neuroni che trasmettono la stessa informazione consentirà di ottenere una precisione molto maggiore.
Inoltre, a differenza dei transistor (che emettono esclusivamente segnali digitali), i neuroni possono emettere segnali sia digitali (come nel caso degli impulsi, che non hanno gradazioni), sia analogici; in grado quindi di variare continuamente nelle loro dimensioni. Inoltre, come sa chiunque si sia cimentato più e più volte in un esercizio complesso (come ricevere il servizio in una partita di tennis), la forza delle connessioni neuronali si modifica in base all’attività e all’esperienza; rendendo possibile, attraverso l’allenamento, imparare un compito e aumentare significativamente la velocità e la precisione con cui lo eseguiamo.
Quest’ultimo aspetto viene però replicato proprio dagli algoritmi di intelligenza artificiali: i collegamenti tra i vari neuroni artificiali che compongono il network neurale si rafforzano quando hanno eseguito il compito che è stato loro dato in maniera corretta, riuscendo così a eseguirlo con precisione sempre maggiore. Allo stesso modo, anche il calcolo parallelo sta venendo integrato sempre di più nei sistemi informatici, impiegando molteplici processori in un solo computer. «Questi avanzamenti – scrive sempre il neuroscienziato Liqun Luo – hanno ampliato il repertorio di compiti che un computer può eseguire. Ma il cervello possiede comunque una maggiore flessibilità e migliore capacità di generalizzazione e apprendimento del miglior computer esistente».
Un ultimo aspetto riguarda invece l’efficienza energetica: secondo alcuni calcoli, per imitare il cervello con l’attuale tecnologia si consumerebbe lo sproposito di 100mila chilowatt. La nostra mente, con tutta probabilità un organo ancora più potente di qualunque supercomputer, consuma 20 watt: quanto una lampadina. Non solo: quando, nel 2013, si è provato a simulare il funzionamento del cervello umano usando uno dei supercomputer più potenti del mondo (il giapponese K della Fujitsu), si sono dovuti impiegare 80mila processori, 1,4 milioni di GB di RAM e 40 minuti di tempo per replicare un secondo di attività cerebrale. Più di ogni altro paragone, forse è questo che riesce a dare l’idea di quanta sia ancora lontana la strada affinché i computer raggiungano le capacità e l’efficienza di quella straordinaria macchina che abbiamo all’interno del cranio.