La casa è l’identità

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La casa è l’identità

Dopo la pandemia gli ambienti domestici sono diventati più fluidi e ibridi. Stiamo assistendo a un cambiamento del concetto di abitare?

Lavoro da casa, confinamento a casa, scuola da casa, videoconferenze con gli amici da casa, persino feste e concerti vissuti da casa propria, e poi ancora balconi che diventavano palchi da cui intonare cori, oppure angusti ma preziosi dehors dove cenare con la propria famiglia. Ripensare ai mesi del lockdown e della pandemia più dura e mordace di certo non suscita nessuna nostalgia, anzi probabilmente leggere l’incipit di questo articolo sarà stato per molti un cupo tuffo in un passato, che speriamo definitivamente alle spalle.

Erano i mesi in cui i nostri appartamenti diventavano sempre di più uffici, scuole, palestre e luoghi di incontri sociali (più o meno in lecita deroga alle leggi sul distanziamento sociale). La casa diveniva sempre più un luogo fluido, in cui pubblico e privato si ibridavano in uno spazio unico destinato a modificare profondamente il concetto stesso dell’abitare.

Voglia di spazio

Secondo l’indagine CasaDoxa 2021, gli italiani che nel 2021 dichiaravano di voler cambiare casa erano il 26%, il 4% in più rispetto al 22% del 2019. Gli anni della pandemia, insomma, avevano convinto 2 milioni di persone a traslocare in casa più grandi, “più comode per il proprio smart working, più confortevoli dal punto di vista tecnologico e dotati di balconi, giardini o terrazzi”. Una tendenza confermata anche da un’indagine di Nomisma del giugno 2022, secondo cui “nel corso dei prossimi mesi ci saranno in Italia 884 mila operazioni reali, contro le 804 mila registrate nel 2021”.

Sono dati che suggeriscono una presa di coscienza della rilevanza della casa nella vita di ciascun individuo e di ciascuna famiglia. Una assunzione di consapevolezza figlia probabilmente dei mesi di clausura domestica, ma anche della domiciliazione della nostra vita sociale, in passato relegata esclusivamente all’esterno delle nostre case (si pensi al lavoro, ai consumi culturali, allo shopping).

La crescente voglia di cambiare abitazione potrebbe perciò rappresentare una sorta di insoddisfazione della propria condizione abitativa, non più confacente con le nuove esigenze createsi. Secondo Marina Ciampi, professoressa associata del Dipartimento di Scienze economiche e sociali della Sapienza – Università di Roma, “l’abitare è un’esperienza dinamica che oscilla tra la dimensione privata dell’esistenza (che coincide con il luogo-casa) e quella sociale (che si sviluppa nello spazio esterno ed è centrata sulla interazione con l’altro). Quando viene a mancare tale oscillazione tra interno ed esterno (come nel caso dell’emergenza da Covid19), la casa può persino risultare un labirinto dai connotati angusti, perché l’interieur si riduce alla sola funzione protettiva (comunque un privilegio per chi non lo possiede)”.

La casa come pendolo tra rifugio, esilio e prigione, dunque. Non a caso, al concetto di casa è stata associata in quei mesi la voglia di protezione, ma anche quella «sindrome della capanna», che in tanti hanno accusato una volta liberi di poter riappropriarsi della propria vita sociale esterna. Per scongiurare la visione della casa come limite, invece, sempre più persone hanno iniziato a ricercare spazi più aperti, tanto che, sempre secondo la ricerca CasaDoxa 2021, «a balzare in testa nella classifica dei must-have per le nuove case spiccano giardini e terrazzi (67%, +9% rispetto al 2019) e la presenza di parchi a pochi minuti di cammino (65%, con un incremento del 17% sul 2019)».

Si riscopre il buon vicinato

Un’altra crescente urgenza, eredità dell’esperienza pandemica, è l’importanza di vivere nei pressi della propria rete amicale o parentale. Un network che nei mesi del lockdown ha rappresentato un supporto pratico, per esempio durante i periodi di quarantena o malattia, e che oggi continua a svolgere un importante ruolo di cuscinetto sociale. Sempre secondo i dati CasaDoxa, infatti, “avere un buon vicinato è un criterio molto importante per quasi 3 italiani su 5 che intendono acquistare una nuova casa”.

Le case diventano sempre più tecnologiche (si parla di abitazioni effortless cioè digitali senza eccessivi sforzi) e attente alla sostenibilità, dalla scelta dei materiali alle soluzioni di efficienza energetica. Il tutto senza perdere contatto con il contesto esterno. «L’emergenza sanitaria – osserva Marina Ciampi – ci ha insegnato che anche in una società iper-connessa, globale e tecnologicamente avanzata, non può mancare lo spazio sociale aperto, vivo, delle relazioni dirette e face-to-face». Ecco perché il rapporto interno-esterno non è un rapporto chiuso, neanche dopo i mesi dell’isolamento domestico forzato. La pandemia, inoltre, con la remotizzazione del lavoro, ha permesso l’insorgere anche di ulteriori fenomeni sociali, come il ripopolamento (in realtà tutto ancora da accertare) dei borghi periferici, oppure il cosiddetto South Working, il lavorare da remoto nella propria regione di provenienza del sud, senza dover vivere necessariamente altrove.

Ad oltre due anni dallo scoppio della pandemia, possiamo parlare ancora, dunque, di una fuga dalle metropoli, o peggio ancora di morte della città?  Nient’affatto. Già nel 2021, la Banca d’Italia in un suo “Occasional Paper” ribadiva come fosse da confutare qualsiasi teoria sul rischio di abbandono dei centri urbani. E questo pur se nello stesso report si rilevava un crescente aumento dell’interesse nei piccoli centri, nelle aree rurali, nelle periferie e nei i quartieri a minore densità abitativa. «La città, con tutti i suoi luoghi, può essere paragonata a una ‘grande casa sociale» sottolinea Marina Ciampi, secondo cui «anche se la pandemia ha bloccato questi flussi, interrompendo l’elasticità e dinamicità della vita sociale e intersoggettiva, l’unico regalo che essa ci ha consegnato è proprio la ri-scoperta di un sentimento profondo: vivere, crescere, acquisire una identità sono tutte condizioni che presuppongono lo scambio, l’interazione, il dialogo con gli altri e questo dovrebbe avvenire in uno spazio che sia sempre meno on line e sempre più off line». E questo è un discorso che va ben oltre le mura delle nostre case.

Giornalista, pugliese e adottato da Roma. Nel campo della comunicazione ha praticamente fatto di tutto: dalle media relations al giornalismo. Brand Journalist e conduttore radiofonico, si occupa prevalentemente di economia, energia ed innovazione. Oltre la radio ama la storia e la politica estera.