Il lavoro del futuro

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Il lavoro del futuro

Perché guardare al presente con uno sguardo consapevole di ciò che sappiamo delle prospettive future aiuta nelle scelte, sottolineando l’interpretazione meno passiva e più costruttiva dei fatti.

Perché guardare al presente con uno sguardo consapevole di ciò che sappiamo del futuro aiuta nelle scelte, sottolineando l’interpretazione meno passiva e più costruttiva dei fatti.

​​Le preoccupazioni per lo stato presente dell’occupazione, non sono mitigate dalle previsioni sulle tendenze dell’occupazione futura. Perché il passaggio congiunturale avviato dalla crisi del 2008 si somma alla trasformazione strutturale che si sta sviluppando nel corso di questo inizio di millennio e le cui conseguenze sono tutt’altro che facili da interpretare. Ma mentre nei paesi che hanno superato la crisi congiunturale, il dibattito sul lavoro del futuro diventa un tema di visione e policy attuale, nei paesi che, come l’Italia, sono ancora nettamente sotto i livelli pre-crisi, il lavoro del futuro rischia talvolta di restare un tema meno concreto, più frammentario, discusso episodicamente e soprattutto separatamente dalle questioni che appaiono più urgenti. Paradossalmente, lo si discute meglio nell’ambito delle organizzazioni che sono riuscite a uscire dalla crisi, ma non in quelle che ne avrebbero più bisogno. Con la conseguenza di perdere opportunità per usare la riflessione sul futuro come una chiave di lettura – e di cura – del presente.

Una prospettiva condivisa, infatti, serve ad affrontare le crisi e a costruire i successi. Per quanto riguarda le strategie riuscite, l’importanza di sviluppare una prospettiva comune è ben nota alle aziende italiane che sono riuscite ad aumentare le esportazioni anche negli anni più duri della crisi del mercato interno, descritte dall’ufficio studi di Mediobanca: hanno dovuto imparare per esempio a condividere le visioni di prospettiva, e le pratiche consequenziali, che esistono nelle filiere produttive tedesche o nelle strutture commerciali cinesi, altrimenti non avrebbero potuto inserirsi da protagoniste nello sviluppo di quelle economie. E per quanto riguarda le crisi aziendali o territoriali, invece, la mancanza di una prospettiva rende più difficile trovare accordi tra le parti sociali che possano rilanciare le attività, o trovare nuove strategie di sviluppo, o almeno mitigare la sofferenza con la speranza. In mancanza di un’analisi credibile sul futuro, le crisi sono più difficili da superare e le opportunità sono più difficili da trovare. Sicché si rischia di entrare in loop per cui le parti in causa si concentrano su ciò che ritengono urgente puntando alla mera sopravvivenza, non approfondiscono quello che è importante perdendo qualità nella conoscenza, non arrivano a pensare soluzioni costruttive e solidamente fondate peggiorando ulteriormente il presente e allontanandosi dal futuro.

Alla ricerca di nuove competenze
Un’inchiesta sul lavoro del futuro può partire dai dati. Secondo un noto e controverso paper del 2013 di Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, di Oxford, il 47% dei lavori saranno sostituiti da macchine nel prossimo decennio o giù di lì. Successivamente, Stefano Scarpetta dell’Ocse è riuscito a compiere un lavoro di ricerca più fine arrivando a vedere che un 14% dei posti sparirà ma che un terzo dei mestieri si trasformerà radicalmente. McKinseyGartner e CapGemini sono dell’avviso che, alla lunga, la quantità di posti di lavoro generati dalla tecnologia supererà il numero dei posti di lavoro che la tecnologia farà scomparire. Ma oltre a questi bilanci previsionali, poco confortanti per chi si troverà in mezzo alle crisi, occorre comprendere le trasformazioni. Le previsioni EY evidenziano che a livello mondiale il 30% delle competenze di oggi tra 5 anni non saranno più utilizzabili e che tra 5-7 anni le aziende avranno bisogno del 30% di competenze nuove che oggi ancora non conoscono. Il risultato di queste analisi è in fondo chiaro: il cambiamento delle tecnologie e delle organizzazioni renderà obsoleti, a velocità crescente, molti mestieri ma non si tradurrà necessariamente in una forma stabile di disoccupazione tecnologica, se la trasformazione sarà compresa, progettata secondo i valori condivisi dalla popolazione, accompagnata da un forte rinnovamento dei sistemi educativi.

Guardare al presente con uno sguardo consapevole di ciò che sappiamo delle prospettive future aiuta nelle scelte, sottolineando l’interpretazione meno passiva e più costruttiva dei fatti. In questo contesto, i grandi motivi che spingono la trasformazione vanno pensati con un approccio che non si limiti alla “flessibilità”, ma coltivando piuttosto una mentalità “strategica” che sappia usare la flessibilità, il pragmatismo, l’empirismo, per mantenere una rotta che potrà essere tanto più condivisa quanto meglio terrà conto dei valori più accettabili nella società: l’intelligenza artificiale, per esempio, può essere interpretata come un sistema per sostituire persone nelle aziende, ma può anche essere pensata per aumentare la produttività delle persone o la qualità della loro opera. Il miglioramento tecnico dell’intelligenza artificiale è relativamente ineluttabile, almeno per quanto riguarda il “machine learning” in un contesto di abbondanza di dati, ma non è per nulla ineluttabile la sua applicazione in azienda: questa è frutto del progetto umano.

Allo stesso modo le strutture che negli anni scorsi si sono dimostrate più forti nello sconvolgere interi mercati, le piattaforme che disintermediano le relazioni tra domanda e offerta in specifici settori, possono essere pensate per distruggere lavoro protetto e aumentare il lavoro privo di diritti: oppure possono servire a migliorare la qualità dei servizi e delle opportunità di occupazione. Ma ancora una volta dipende dal progetto di chi le pensa, di chi le finanzia e di chi le applica. Senza dimenticare che, che mentre questi cambiamenti avvengono nel sistema produttivo, il mondo dei servizi sembra avere sempre più bisogno di figure di intermediazione culturale, di cura delle persone e delle relazioni tra le persone, di educazione. Tutte attività che si sviluppano più grazie a forme di valorizzazione della cultura e dell’empatia che ricorrendo alle semplici soluzioni offerte dalla mera tecnologia. Insomma, il lavoro del futuro è una storia tutta da scrivere. E i grandi cambiamenti in atto possono servire agli umani per scriverla bene.

Luca De Biase, giornalista e scrittore. È responsabile di Nòva, la sezione dedicata all'innovazione al Sole 24 Ore. Insegna Knowledge Management all'università di Pisa. È membro del comitato scientifico della Fondazione Innovazione Urbana e della Fondazione Unipolis. Ha scritto recentemente "Il lavoro del futuro" (Codice).​