I dolori della tech generation

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I dolori della tech generation

La Silicon Valley come un luogo oscuro e il data driven come un abominio. La vita nelle start up tecnologiche nel libro di Anna Wiener tra fiction e realtà.

Recentemente, è uscito per Adelphi un libro assai particolare, che merita una riflessione e che ci parla della tech generation. Parlo della Valle Oscura, di Anna Wiener.

Il genere è ibrido, anzi ibrido multistrato. In prima battuta può essere letto come memoir-reportage della protagonista, Anna stessa, che racconta i suoi 5 anni di lavoro in startup della Silicon Valley, dal 2012 al 2017.

Allo stesso tempo, è un saggio antropologico e sociologico (a tratti urbanistico) sul mutamento di pelle di San Francisco, la sua gentrificazione di cui tanto si è parlato. Dimenticate la cultura hippy, la psichedelia e gli artisti controcorrente. La città è ora la culla della tech generation: giovani informatici, sviluppatori e ingegneri ossessionati dalle opportunità digitali, dalla misurazione compulsiva, dalla crescita esponenziale delle loro startup, e dai soldi.

E certamente, è un romanzo di formazione. La storia di una editrice di New York poco più che ventenne, appassionata di libri, che sceglie di contaminare la sua vocazione letteraria e le competenze umanistiche con il marketing digitale, l’intelligenza emotiva con quella analitica, l’intelligenza umana con quella artificiale.

Se volete capire davvero cosa fanno tutto il giorno le persone dentro le startup più celebrate del pianeta, come lo fanno, e perché lo fanno, non guardatevi i soliti TedTalk dei fondatori di qualche Tech Giant, non leggetevi i soliti saggi sul cambiamento del business digitale, non ascoltatevi i soliti podcast con le interviste a vecchi tromboni italici che pensano di poter spiegare pensieri e abitudini di gente con 40-50 anni in meno. Leggetevi La Valle Oscura. Qui si racconta la realtà nuda e cruda, nel bene e nel male, senza omissioni e abbellimenti, con tutto lo spettro di sfumature utili a comprendere come dei ventenni siano riusciti a codificare una cultura allo stesso tempo luminosa e terrificante.

Il punto forte del libro è la sua voce: la prospettiva di una millennial (della fascia giovane, vicina alla Gen Z) che ha vissuto la Silicon Valley da protagonista e osservatrice privilegiata, senza mai farne parte del tutto. Con un sacco di dubbi che l’hanno costantemente accompagnata. Una “bastarda” culturale, immigrata dalla tradizione letteraria newyorkese alla frenesia di una West Coast dove invece di farsi di lsd ci si pompa con adrenalina, insulina e algoritmi.

Anna è figlia dello Story Driven, la sua matrice è centrata sulle storie delle persone, sull’empatia. La sua migliore capacità è osservare e ascoltare: non a caso entrerà a lavorare nella gestione dei clienti e delle crisi reputazionali, dimostrandosi molto abile.

La Valley invece è Data Driven, la sua matrice è centrata sull’estrazione, l’elaborazione e lo sfruttamento dei dati digitali prodotti dalle persone. Le storie qui si trovano a valle, non a monte, ed emergono dai big data. Le magliette della sua seconda startup recita fieramente: We are Data Driven. I dati sono cultura. Sono La cultura.

Riguardo il conflitto perenne con il suo ex amministratore delegato (un ragazzo poco più che ventenne tanto geniale sul business quanto irrisolto sulla vita), Anna ricorda: «Io parlavo di analisi compassionevole, lui di ottimizzazione. Io volevo una squadra di cuori teneri, lui di macchine».

E c’è ancora (almeno) una modalità di fruire del libro: un pamphlet di protesta sulla diversità e l’inclusione nella Valley. Che non ci sono. O meglio, che vengono recitate dai copioni aziendali, ma non messe in atto nella vita reale. Le donne contano poco; lo sparuto gruppo di ragazze che sviluppano codice vengono snobbate o derise, prendono meno soldi. Le loro proposte di migliorare il software e parti di codice vengono ignorate, mesi del loro lavoro vengono buttate via o semplicemente mai utilizzate. Le altre, chi come Anne si occupa della gestione clienti, o nelle HR, non vengono quasi considerate: sono ruoli di serie C. «Sei una delusione, ti credevo migliore. Invece non sei abbastanza analitica» dirà in modo glaciale l’amministratore delegato ad Anne.

Eppure, non c’è spazio solo per la critica: dentro le startup dove vivrà Anne incontreremo anche colleghi molto umani, gentili, consapevoli dei lati oscuri più o meno latenti della loro generazione tech. Entreremo in party aziendali pieni di entusiasmo, momenti di vera felicità, frenesia positiva. Dopo uno scandalo di molestie verso una collega, la startup intraprenderà un percorso di rinnovamento culturale sulla scia della diversity & inclusion, cercando di crederci davvero a attivando azioni concrete.

E si respira davvero l’aria del futuro, c’è davvero una sensazione ribelle nel far cadere i vecchi nomi e i vecchi poteri del business. Si capisce una cosa: nei primi anni, fino al 2014-2015 circa, la Valley gode della sua novità, del suo ottimismo e desiderio diffuso di cambiare in qualche modo il mondo in meglio, seppure con tante contraddizioni.

Dopo, qualcosa si incrina, poi si rompe: ci si rende conto che effettivamente sì, i dati sono utilizzati soprattutto per controllare le persone e farci un uragano di soldi, gli algoritmi che regolano l’informazione sono più utili agli spacciatori di fake news e agli urlatori politici che ai pensatori moderati. E il numero di gif di seni e peni dondolanti superano esponenzialmente le quote di Abramo Lincoln e Walter Benjamin.

Non a caso il libro si chiude con lo shock culturale della vittoria di Trump come nuovo Presidente degli Stati Uniti. E con la domanda che tutti nella Valley si fanno nella testa ma nessuno ha il coraggio di postare o twittare: «Quanto è davvero responsabilità nostra?».

Ciò che porto con me dallo studio di questo testo, è soprattutto la consapevolezza che tutte le aziende italiane con cui lavoro e che vogliono diventare Tech/Techo Giants/OTT /Digital Disruptive/Unicorn o che dir si voglia, non devono cercare di copiare la cultura Google/Facebook/Airbnb/Netflix ecc. Dovrebbero rimanere sé stesse cambiando pelle.

La cultura della valley offre idee nuove e buone pratiche, ha cambiato il mondo con novità dirompenti. Ma è anche oscura, e per riprendere la traduzione letterale del titolo (The Uncanny Valley) a tratti perturbante.

Il termine arriva dalla psicanalisi (e dalla letteratura: lo si trova nel bellissimo e celebre racconto “Il mago della sabbia” di​ Ernst Hoffmann). Declinato in accezione tech, lo possiamo interpretare così: “quel misto di disagio, apatia e angoscia che si prova quando si incontra un automa/robot con fattezze umane.

Le aziende italiche, che siano grandi o piccole, possono (devono) assorbire alcune tracce culturali dal Tech, e capire come declinarle dentro la loro cultura. Ricordando che ciò che manca alla Valley, paradossalmente, ​è la diversità: sui ponti di comando si nota una devastante penuria di generi, culture e razze diversa dal maschio bianco analitico. Persone che non credano solo al data driven, al “se non lo puoi misurare, non esiste”. Una delle frasi più ripetute ultimamente in giro. Che oltre a non essere vera, è un abominio. Troviamo la nostra strada verso il futuro. Ne esistono tante. Ah, e leggetevi il libro di Anne. Merita. Alla prossima.

La mia prima "startup" è stata una rock band in cui ho suonato per dieci anni, poi la vita mi ha portato alla cultura digitale. Ho pubblicato numerosi saggi, tra cui #Contaminati e Digital Skills, e il romanzo I sogni di Martino Sterio. Oggi sono Partner e Digital Learning Strategist in Newton, dove sviluppo percorsi di innovazione per grandi aziende, e coordinatore Master Digital per la Business School Sole24Ore. Contaminare la scrittura con la formazione mi rende felice.​