Consumi: il codice a barre lascia il posto al Qr
Poco più di 50 anni fa, il 26 giugno 1974, il codice a barre veniva passato per la prima volta dalla cassa del supermercato Marsh nella città di Troy, in Ohio, su una confezione
In un mondo online dove l’informazione è pervasiva e i contenuti viaggiano senza limiti fisici né temporali, Il diritto all’oblio è un baluardo per la difesa del diritto alla privacy. Cosa è cambiato negli anni e come fare. Changes ne ha parlato con Elena Bassoli, avvocato specialista in diritto dell’informazione.
C’è una famosa frase che spesso si ripete nel marketing: «se vuoi nascondere qualcosa davvero bene, mettilo nella seconda pagina dei risultati di Google». Tradotto: la rete sa tutto di te e tutto è facile da trovare, perciò il nascondiglio delle cose indesiderate è lì, dove gli utenti per pigrizia spesso non vanno, ovvero negli ultimi risultati dei motori di ricerca.
In un mondo della rete che tutto sa e che tutto può ritrovare, c’è un limite temporale e non solo alla pubblicazione delle notizie minacciose per la reputazione e il rispetto dei diritti di una persona? La risposta è nella storia ormai decennale della riflessione sul cosiddetto diritto all’oblio, ovvero quello che, in linea generale, la Treccani definisce come “l’Istituto che prevede il diritto di ciascun individuo a pretendere la cancellazione della memoria di fatti o dati che lo riguardano”.
Da inizio 2024 Google ha deciso di fare un passo in più e ha smesso di avvertire gli editori della rimozione dei contenuti, comunicando solo l’eliminazione della Url, ovvero dell’indirizzo web, senza specificare quale sia il contenuto e perché è stato rimosso. Una tutela in più della privacy degli utenti che hanno chiesto di essere dimenticati dal web che però ha scatenato le ire dei proprietari dei siti web.
Il 2016 rappresenta un vero e proprio punto di svolta per la tutela del diritto all’oblio. È l’anno, infatti, in cui entra in vigore il GDPR. Secondo l’avvocato Elena Bassoli, specialista in diritto dell’informazione, della comunicazione digitale e della protezione dei dati personali, il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, ha rappresentato, infatti, «un vero e proprio spartiacque nella disciplina del diritto all’oblio. Sino ad allora, infatti, a prescriverlo era stata la giurisprudenza ed esso veniva riconosciuto solo in casi specifici, senza la presenza di una chiara e formale legislazione». Questi casi specifici erano limitati, in sostanza, agli indagati, imputati e condannati che si rivolgevano alla giustizia per far valere il loro diritto a non essere ricordati più come tali. In questo scenario ha rappresentato un momento-chiave la vicenda di Mario Costeja González, cittadino spagnolo che nel 2014 si era rivolto all’ l’Agencia Española de Protección de Datos (il nostro Garante per la Privacy) per chiedere a Google di rimuovere alcune informazioni ritenute non più attuali pubblicate dal giornale LaVanguardia Editiones SL. Il reclamo fu accolto dall’AEPD e la successiva sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sancì la responsabilità in materia di protezione dei dati dei gestori dei motori di ricerca in quanto «agiscono come intermediari della società dell’informazione».
Fu una sentenza storica che aprì il dibattito su un diritto che avrebbe conosciuto una sua formalizzazione nell’articolo 17 del GDPR. Questa novità rappresenta una estensione del diritto a richiedere la cancellazione dei propri dati dalla rete.
L’avvocato Elena Bassoli da anni si occupa di diritto all’oblio e sono tante le persone (celebrità e non) che a lei si sono rivolte per avviare il processo necessario per il suo riconoscimento. «Per far valere il diritto all’oblio – spiega – per prima cosa occorre contattare un tecnico forense che non è un mero tecnico informatico, ma un professionista che aiuterà ad eseguire una copia forense della pagina web o social o e-mail contenente le informazioni e i dati oggetto del procedimento». Un semplice screenshot, insomma, non basta. «A questo punto i legali redigeranno un’istanza (detta “interpello preventivo“) che sarà inviata al titolare del trattamento dei dati della piattaforma che ha pubblicato le informazioni contestate. Questi avrà un mese di tempo per rispondere ai sensi dell’art. 12 del GDPR. Se non lo fa o la sua risposta risulta incompleta, si può aprire la via del reclamo al Garante per la Protezione dei Dati». Tutto finito? Niente affatto. Come dettaglia l’avvocato Bassoli, infatti, «il Garante è un’authority amministrativa indipendente e non ha il potere di stabilire il risarcimento, ma emetterà un provvedimento in cui stabilirà se vi è stata una violazione della normativa sulla protezione dei dati personali. Il Garante ha, inoltre, l’obbligo di informare la Procura della Repubblica per i profili penali, mentre, per il risarcimento del danno è possibile procedere sino al tribunale civile per stabilire l’entità del danno patrimoniale e morale».
La riflessione giuridica ed etica sul diritto all’oblio si è spesso soffermata sul suo rapporto con altri diritti riconosciuti come fondamentali. Tra questi c’è quello d’informazione e di espressione del proprio pensiero. Come sintetizza sempre l’avvocato Bassoli, «il rapporto tra il diritto all’informazione e il diritto all’oblio si esplica in un problematico bilanciamento tra l’articolo 2 della Costituzione che tutela i diritti fondamentali dell’uomo e l’articolo 21 che prescrive la libertà di manifestazione del proprio pensiero, tra cui il diritto di cronaca. Solitamente il diritto all’oblio non si applica per quelle informazioni che rappresentano notizie attuali, veritiere, di interesse generale ed esposte con linguaggio pertinente».