Accendiamo la luce sul futuro
La serie di fantascienza Star Trek è ambientata nell’anno 2264. Gli esseri umani viaggiano nella galassia insieme agli alieni, aiutati da computer, propulsione più veloce d
Tra pochi anni le case automobilistiche saranno anche fornitrici di servizi di qualsiasi genere. E un domani non troppo lontano i colossi dell’automotive forse esternalizzeranno la produzione come già avviene con gli smartphone.
Tra pochi anni le case automobilistiche saranno anche fornitrici di servizi di qualsiasi genere. E un domani non troppo lontano i colossi dell’automotive forse esternalizzeranno la produzione come già avviene con gli smartphone.
Quando si parla di auto del futuro, non ci sono dubbi sugli aggettivi che caratterizzeranno le quattro ruote. Le automobili, salvo sorprese tecnologiche a oggi difficilmente prevedibili, saranno elettriche, connesse, autonome, condivise. In sintesi, come già scritto nei mesi scorsi su questa testata, saranno degli smartphone viaggianti.
Questo ovviamente riguarda il prodotto ma una trasformazione del genere quali effetti produrrà sui produttori? Probabilmente tra qualche anno il paradigma, o meglio il business model del settore, sarà completamente differente da come si è sviluppato in oltre cento anni di esistenza del prodotto auto. Di sicuro non esisteranno i produttori come li abbiamo finora conosciuti: grandi organizzazioni capaci di gestire attività estremamente complesse che vanno dall’ingegneria allo sviluppo, dalle fabbriche alle reti di logistica, dal network commerciale all’assistenza della clientela. Si tratta di una filiera con migliaia di interconnessioni con altri settori e contesti operativi differenti e soprattutto con un impatto sociale e civile senza pari al mondo. Eppure, già oggi il cambiamento di paradigma, per quanto ancora lontano dall’avverarsi compiutamente, è presente nelle strategie di molte case automobilistiche, soprattutto di quelle più importanti e note al grande pubblico. Lo slogan è ormai univoco: diventare fornitori di servizi per la mobilità. In alcuni casi si tratta di uno slogan che va oltre, molto oltre. Basta l’esempio della Volkswagen, che nel suo sforzo di elettrificazione della gamma è arrivata a lanciare una società attiva nella vendita di elettricità per clienti e non solo.
Si tratta, ovviamente, di un cambiamento graduale ma costante che trova le sue radici nel mantra degli ultimi anni: l’auto elettrica. Ed è proprio dal concetto di veicoli alla spina che bisogna partire per delineare quanto sta per avvenire all’interno del settore. I veicoli elettrici sono prodotti decisamente più semplici di un veicolo con motore endotermico. A tal proposito si parla di un numero di componenti pari a circa un quinto rispetto a quelli tradizionali. È per questo motivo che in Germania stanno montando sempre di più i timori per l’impatto occupazionale dell’attuale svolta verso l’elettrificazione. Meno componenti da montare significa meno operai necessari alle attività manifatturiere. Non a caso ha fatto scalpore l’allarme lanciato da uno dei rappresentanti del settore più in vista in Italia, anche per un suo recente passato in politica, Alberto Bombassei, fondatore e proprietario della Brembo, azienda produttrice di freni di alta gamma per veicoli sia da strada che da competizione. «Oggi – ha affermato l’imprenditore al Sole 24 Ore – c’è un grande entusiasmo per l’auto elettrica. Nessuno, però, considera il suo impatto sociale. In Europa, se smettessimo di produrre macchine a gasolio o a benzina e facessimo soltanto più auto elettriche perderemmo un lavoratore su tre. Compri il motore, compri la batteria e il 60% del valore dell’auto ce l’hai. Ma un milione di europei non avrebbe più una occupazione». Si tratta di una cifra ragguardevole se si pensa che l’intero settore impiega direttamente oltre 13 milioni di lavoratori e molti milioni in più considerando tutte le attività collegate. È anche per questo motivo che l’Acea, l’associazione di categoria europea, chiede da tempo misure di salvaguardia alle istituzioni comunitarie e un approccio neutrale nella gestione di una svolta elettrica finora imposta dall’alto senza valutarne gli effetti a 360 gradi.
Guardando alla storia dell’auto, comunque, non si tratterebbe di un caso unico e raro di effetti devastanti determinati da innovazioni tecnologiche o di mercato. Già negli anni ’80 il settore è andato incontro a un fortissimo ridimensionamento della propria forza lavoro. Le grandi fabbriche del passato, capaci di ospitare al loro interno decine di migliaia di operai, si sono progressivamente svuotate per effetto della continua esternalizzazione di attività condotte con più efficacia ed efficienza dai produttori di componentistica. Oggi una fabbrica di auto non è più un impianto dove entrano materie prime ed esce il prodotto finito, bensì un grande stabilimento di “avvita-bulloni”: entrano semilavorati o prodotti già finiti da integrare all’interno delle scocche. Sono stati i giapponesi a dettare la linea nella seconda metà degli anni ’80 e ora tutti non solo altro che “avvita-bulloni” con la conseguenza che oggi il valore preponderante di un produttore automobilistico è insito nelle attività di ingegneria e sviluppo del prodotto più che nella produzione vera e propria.
Lo stesso fenomeno, seppur in altra veste, è destinato a replicarsi con l’auto elettrica e anzi a mostrare ulteriori esternalità positive per il mercato. L’auto elettrica sarà meno complessa e quindi avrà costi produttivi inferiori che abbasseranno barriere all’ingresso finora elevatissime. Non è un caso il proliferare di startup cinesi intenzionate a fare concorrenza alla Tesla e non è un caso che perfino la Dyson, nota per le sue aspirapolveri, abbia deciso di lanciarsi nel mercato delle elettriche. La conseguenza sarà un aumento del numero dei concorrenti sulla falsariga di quanto avvenuto in altri settori come quello dei telefonini. I grandi colossi dell’auto dovranno prendere le giuste contromisure potendo contare sui loro attuali punti di forza: le dimensioni, che consentono di mobilitare enormi investimenti, e le capacità di gestire attività complesse e filiere molto lunghe. È per questo che la Volkswagen ha lanciato in Germania la sua proposta di vendita di elettricità con una società apposita. D’altro canto, le auto alla spina saranno condizionate dalla disponibilità di elettricità e i clienti dovranno essere serviti con un pacchetto integrato di offerte che solo in pochi saranno in grado di garantire e gestire.
Tutto ciò vale se l’auto sarà solo elettrica, ma il futuro parla di connessione, autonomia e condivisione. Se veramente l’auto del futuro sarà connessa allora serviranno specialisti di comunicazione, così come tecnici per la sicurezza e altre figure legate al mondo dei computer per garantire la miglior affidabilità possibile. Se gli attacchi degli hacker sono passati dai pc agli smartphone un motivo ci sarà. A tal proposito la società di consulenza McKinsey ha calcolato che il peso dei software all’interno di un veicolo passerà dall’attuale 10% a ben il 30% entro il 2030.
Sul fronte dell’autonomia, poi, già oggi si stanno aprendo nuove posizioni lavorative legate all’intelligenza artificiale o alla robotica o comunque a tutte quelle tecnologie finora confinate ad ambiti prettamente industriali. Quando poi si estende il discorso alla condivisione lo spettro delle possibilità si amplia ulteriormente perché rientrano discorsi legati alla fornitura di servizi finanziari, assicurativi e legali anche innovativi rispetto alle proposte attuali.
In poche parole, con l’auto del futuro non saranno tanto i colletti blu ad essere al centro della scena industriale quanto i colletti bianchi e ancor di più gli specialisti di servizi. A sostenere tale tesi è la European Climate Foundation, secondo cui la transizione verso la cosiddetta e-mobility pone le condizioni per lo sviluppo dell’economia e quindi dell’occupazione con l’impatto negativo sull’industria automobilistica annullato dall’espansione in settori come energia, elettronica e informatica. In tal senso la società di consulenza Ambrosetti ha prodotto, insieme a Enel, la ricerca “Electrify 2030”, da cui emerge come solo in Italia la filiera allargata dell’e-mobility possa contare circa 160 mila imprese, con oltre 820 mila occupati, un fatturato complessivo di più di 420 miliardi di euro e ulteriori benefici economici raggiungibili al 2030 e quantificabili in ricavi supplementari tra 102,4 e 456,6 miliardi di euro. Si tratta, dunque, di un mercato potenzialmente enorme dove le Case automobilistiche giocheranno un ruolo, se non più ruoli, differente rispetto all’attualità e lo faranno con una forza lavoro composta più da tecnici del computer che da operai.
E questo senza considerare uno scenario estremo. Se veramente l’auto del futuro sarà uno smartphone su 4 ruote non è escluso che anche il settore automobilistico non vada incontro a una trasformazione stile Apple. Le Case saranno meri progettisti di veicoli assemblati in mega-fabbriche, magari site in Cina, sulla base di una fortissima standardizzazione della componentistica. Toccherà alle singole case elaborare l’offerta migliore ma allora la concorrenza non verterà sul prodotto ma sui servizi e il settore, come è oggi, non esisterà più. Nel mentre vanno ridimensionati gli allarmi sull’occupazione ma servono politiche di promozione “europee” che al momento mancano quasi del tutto o comunque non hanno la portata di iniziative messe in atto dalla Cina o dagli Stati Uniti.