Alla ricerca di una Terra 2.0

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Alla ricerca di una Terra 2.0

La scoperta di un nuovo pianeta molto simile al nostro riaccende il desiderio di colonizzazione dello spazio. A cominciare dalla conquista di Marte.

This artist’s impression shows the planet K2-18b, it’s host star and an accompanying planet in this system. K2-18b is now the only super-Earth exoplanet known to host both water and temperatures that could support life. UCL researchers used archive data from 2016 and 2017 captured by the NASA/ESA Hubble Space Telescope and developed open-source algorithms to analyse the starlight filtered through K2-18b’s atmosphere. The results revealed the molecular signature of water vapour, also indicating the presence of hydrogen and helium in the planet’s atmosphere.

La scoperta di un nuovo pianeta molto simile al nostro riaccende il desiderio di colonizzazione dello spazio. A cominciare dalla conquista di Marte.

Si chiama K2-18b, ha una massa otto volte superiore a quella della Terra e, per il momento è l’unico pianeta sul quale si trovano tracce di acqua e una temperatura che potrebbe sostenere la vita. La scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, è stata realizzata da un gruppo di lavoro guidato da Angelos Tsiaras dell’University College London, ha riacceso le speranze di trovare un pianeta abitabile alternativo alla Terra. In attesa di capire se K2-18b sia davvero una Terra 2.0 gli sforzi di colonizzazione dello spazio da parte dell’uomo sono tutti concentrati su Marte. 

Nel settembre dello scorso anno, Elon Musk ha finalmente aperto i laboratori di SpaceX, l’agenzia aerospaziale privata da lui fondata. L’occasione era di quelle importanti: mostrare al mondo a che punto è la lavorazione del Big Falcon Rocket (chiamato amichevolmente BFR), il razzo che darà il via al turismo spaziale portando un miliardario giapponese, Yusaku Maezawa, attorno alla Luna (forse nel 2023). Ad affascinare, però, è soprattutto un altro aspetto: il BFR è anche il veicolo spaziale destinato ad accompagnare il primo uomo su Marte.

Difficile dire, oggi, quando questo avverrà: le prime stime di Musk parlavano del 2025, la NASA si è invece spinta a prevedere che la conquista del Pianeta Rosso avverrà attorno al 2033. Molto più prudente l’ESA (l’agenzia spaziale europea) che si è limitata ad affermare che l’uomo arriverà sul quarto pianeta del Sistema Solare entro questa generazione. In attesa di tempistiche più accurate, il progetto di Elon Musk procede abbastanza spedito. Lo dimostra il fatto che nella sede di Hawthorne (California), la costruzione del BFR da parte di SpaceX procede senza particolari intoppi. 

La costruzione del BFR

Come si può intuire dall’ambizioso obiettivo per cui nasce, questo razzo ha dimensioni notevoli: 118 metri di lunghezza (di cui 55 occupati dalla navicella e il resto dal razzo vero e proprio), 4.400 chili di peso, 1.100 metri cubici di capacità di carico, 9 metri di diametro. La spinta propulsiva che lo spingerà oltre l’atmosfera, invece, è garantita dai 42 motori Raptor alimentati a metano e ossigeno liquidi; mentre la navicella in sé sarà dotata di sette motori, un numero necessario – secondo quanto spiegato da Musk – a garantire un’adeguata soglia di sicurezza.

I lavori, come detto, sono in corso. Fino a oggi è stata completata la sezione cilindrica ed è iniziata la produzione dei motori e della cupola che, dalla navicella, permetterà di godersi lo spettacolo dello spazio. Dare per scontato che la produzione non incontrerà ostacoli, però, sarebbe un errore: il BFR ha un costo stimato in cinque miliardi di dollari, che potrebbe lievitare fino a 10. Numeri che fanno spavento, seppur non eccessivi nel campo aerospaziale: dove troverà Musk le risorse necessarie?

Dal momento che una quotazione in borsa è stata esclusa per il tempo a venire, per il momento si punta sui generosi investitori che credono nelle visioni di Elon Musk e nel business del rifornimento della Stazione Spaziale Internazionale. Seguendo quello che è il classico modello di business del fondatore di SpaceX, non si può inoltre escludere che vengano messi in vendita altri biglietti destinati ad aspiranti turisti spaziali; il cui ricavato verrà utilizzato per completare la costruzione del BFR (il biglietto pagato da Maezawa, secondo lo stesso Musk, ha infatti dato un contributo “significativo”).

A quel punto, superati gli ostacoli e con tempistiche ancora tutte da definire, l’uomo sarà pronto per partire alla volta del Pianeta Rosso. Con tutta probabilità, le prime missioni non prevedranno l'”ammartaggio”, ma solo l’ingresso nell’orbita marziana. Dopo una prima fase di studio, potremo però assistere alla replica di quanto avvenuto cinquant’anni fa nell’impresa di Neil Armstrong e Buzz Aldrin, ma questa volta a una distanza centinaia di volte superiore e che varia da 54 ai 400 milioni di chilometri. 

Perché proprio Marte?

Come noto, però, i sogni di Elon Musk (e non solo) non si fermano alla conquista di Marte. L’obiettivo è dare vita a una vera e propria colonizzazione del Pianeta Rosso. Tutto questo, oggi, sembra soltanto fantascienza. Perché mai dovremmo impiegare risorse in un progetto apparentemente folle? In verità, di ragioni ce ne sono parecchie: prima di tutto, la conquista dello spazio è la nuova frontiera dell’esplorazione, una sfida che è nel nostro DNA da quando l’homo sapiens ha deciso di allontanarsi dalle praterie africane e diffondersi in tutto il mondo. 

Inoltre, come ha dimostrato la conquista della Luna, lo sviluppo delle tecnologie necessarie a portare a termine obiettivi così ambiziosi può avere ricadute tanto inaspettate quanto rivoluzionarie (l’esempio più classico è quello del GPS). Ma la ragione più importante di tutte è un’altra ed è quella sempre sottolineata da Elon Musk quando racconta perché sta cercando di rendere l’uomo una “specie multiplanetaria”: colonizzare un secondo pianeta serve ad avere un piano B nel caso in cui, sulla Terra, le cose dovessero mettersi davvero male e il pianeta si rivelasse invivibile (a causa, per esempio, dell’impatto con un meteorite impossibile da deviare).

Ma perché puntare su Marte invece che sulla più accessibile Luna? Anche in questo caso, ci sono ottime ragioni: il nostro satellite è dotato di pochissime risorse naturali, è sprovvisto di un’atmosfera che ci protegga dal Sole e il suo giorno ha una durata pari a 28 di quelli terrestri. Niente da fare nemmeno per quanto riguarda Mercurio, che è un luogo infernale con temperature insostenibili; mentre su Venere, alle temperature si aggiungono una pressione atmosferica schiacciante e venti micidiali.

Vanno esclusi dalla lista anche GioveSaturnoUrano e Nettuno, che sono soltanto delle enormi palle di gas che si comportano come pianeti. Non che Marte sia un posticino accogliente, ma messo a confronto con la competizione è quello che offre le migliori chance: la temperatura è bassa ma non impedisce la vita (circa 40° sotto zero in media, ma in alcune zone e in alcuni periodi dell’anno si arriva anche a 20° sopra lo zero), il giorno ha una durata simile al nostro (aspetto fondamentale per vivere e sviluppare le nostre colture), la gravità è un terzo di quella terrestre e c’è moltissima acqua (sotto forma di ghiaccio).

La colonizzazione di Marte

Fin qui, abbiamo scoperto quale mezzo potrebbe portarci su Marte e perché puntare con convinzione proprio sul Pianeta Rosso. Ma come funzionerebbe praticamente la colonizzazione? Prima di tutto, bisogna inviare un nucleo minimo di persone che – secondo uno studio dell’Università di Strasburgo – dev’essere almeno di 100 persone. Un gruppo, ovviamente, che dovrà essere pronto ad affrontare un viaggio non breve: la durata varia infatti da sei a nove mesi ed è necessario approfittare della cosiddetta “opposizione di Marte” (il periodo in cui la distanza tra i due pianeti è minima), che si verifica ogni due anni circa. 

Una volta sbarcati portando con loro un bel po’ di materiale utile (che potrebbe anche venire inviato preventivamente), questi pionieri si ritroveranno su un pianeta deserto, colpito costantemente da radiazioni letali e, ovviamente, privo di ossigeno e di pressione atmosferica. Non una situazione ideale, ma che si può comunque risolvere. Il primo passo indispensabile è la costruzione di qualche abitazione pressurizzata e riscaldata. Per quanto riguarda le scorte di cibo e acqua, invece, dovremo inizialmente affidarci alle spedizioni effettuate dalla Terra.

E le scorte di ossigeno? Facile (si fa per dire), secondo uno studio della NASA potremo approfittare del fatto che l’atmosfera di Marte è composta per il 95% di anidride carbonica. Per ricavare l’ossigeno, bisogna quindi spezzare le molecole di CO2, eliminare il carbonio e conservare così l’elemento chimico imprescindibile per la vita umana.

Costruite le abitazioni pressurizzate, ricavato l’ossigeno e potendo contare su scorte di cibo e acqua inviate regolarmente dalla Terra, la colonizzazione può prendere avvio. Ma questa, ovviamente, è una situazione temporanea, destinata a durare qualche decennio mentre prende avvio il progetto più ambizioso mai concepito dall’uomo: la terraformazione di un pianeta extraterrestre. 

La terraformazione è un processo artificiale che punta a rendere abitabile per l’uomo un altro pianeta, ricreando delle condizioni quanto più possibile simili a quelle presenti sulla Terra. Il primo passo, sempre secondo la NASA, è la creazione di un enorme scudo magnetico che protegga gli insediamenti, rendendo possibile uscire di casa senza essere colpiti dalle radiazioni e che ricrei una parziale atmosfera, andando a sostituire quella spazzata via milioni di anni fa dai fortissimi venti solari che colpivano il pianeta.

Costruito questo scudo, gli uomini giunti su Marte (che nel frattempo dovrebbero essere notevolmente aumentati di numero rispetto ai “primi cento”) potranno iniziare il lavoro più importante: scavare miniere e costruire enormi sistemi di pompaggio in grado di portare in superficie il ghiaccio che si trova sotto la crosta marziana; ottenendo così l’acqua. Utilizzando la regolite, il materiale che ricopre il pianeta, si potranno invece edificare le prime abitazioni vere e proprie. 

L’ultimo passo, a questo punto, è la coltivazione e produzione di cibo direttamente sul Pianeta Rosso; per le quali è necessario sfruttare la coltura idroponica (ovvero in assenza di suolo – che su Marte è tossico – e che sta già venendo testata sulla Stazione Spaziale Internazionale) e anche la cosiddetta biologia sintetica: la creazione di nuove piante in grado di crescere in maniera ottimale anche nelle difficilissime condizioni marziane.

E così, ci siamo: l’uomo ha colonizzato Marte ed è effettivamente diventato una specie multiplanetaria. Per quanto tutto questo sia ancora solo un progetto ambizioso, lontano nel tempo e per molti versi fantascientifico, non bisogna sottovalutare un aspetto cruciale: la NASA, SpaceX, l’Agenzia Spaziale Europea e non solo stanno davvero lavorando, già oggi, per portare a termine questo obiettivo. Forse, la vera domanda da porci non è se colonizzeremo Marte, ma soltanto quando tutto questo diventerà realtà.

​Milanese, classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Esquire e altri. Nel 2017 ha pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti” per Informant Edizioni.