La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Dopo la pandemia, le città mantengono il loro appeal, ma il rischio è che diventino un lusso caro, dove il ceto medio fatica a vivere.
Le metropoli italiane sono davvero inclusive? O sono diventate una roba da ricchi? C’è stato un momento in cui sui social e sui giornali non si parlava d’altro e c’erano ragazzi che alzavano tende di fronte alle università per denunciare l’esorbitante costo della vita a cui studenti e lavoratori fuorisede dovevano far fronte. L’attenzione si è rivolta soprattutto su Milano, dove i monolocali in periferia arrivano a costare mille euro al mese, le pause pranzo sono care quanto una cena al ristorante e i carrelli della spesa sono sempre più proibitivi. Sapete quanto serve a una famiglia di 2,3 persone per vivere decentemente a Milano? Secondo l’Unione Consumatori circa 3.314 euro al mese. Ovviamente netti.
Attenzione però, il fenomeno non è strettamente milanese, ma investe anche altre grandi città italiane e soprattutto accomuna le grandi metropoli europee e mondiali. Se si raffronta Milano su scala globale, infatti, si scopre, come evidenzia l’indagine “Cost of Living” di Mercer che il capoluogo lombardo è solo quarantanovesimo al mondo per costo della vita in una classifica sul cui podio più o meno stabilmente siedono Hong Kong, Singapore e Zurigo (Roma è cinquantanovesima).
Gravate anche dal macigno inflazionistico, le città secondo Giampaolo Nuvolati, sociologo dell’Università Bicocca di Milano, stanno subendo un fenomeno di «polarizzazione sociale che sta portando gradualmente alla scomparsa del ceto medio, che non ce la fa più a vivere nei centri cittadini. Le nostre città stanno seguendo sempre più un modello a clessidra, con una popolazione che si divide tra le classi più agiate che vivono i quartieri centrali o più alla moda e quelle più povere confinate nelle periferie con scarsi servizi su cui contare». Un modello che in Francia è ben noto, con il disagio delle Banlieue che periodicamente esplode con riottosità e violenza.
Una polarizzazione ricchi contro poveri che secondo il sociologo Alfredo Mela, autore per Carrocci Editore del libro “Sociologia della città” caratterizza soprattutto quei contesti urbani «più globali che hanno forti legami con l’economia internazionale e richiamano nuovi abitanti temporanei» con conseguente aumento dei prezzi degli immobili e il rischio che «tutto questo impedisca quella benefica mescolanza tra classi, inibita dall’innalzamento di recinti, dalla separazione sempre più netta tra élite e classi meno agiate e l’insorgenza di contrasti dalle conseguenze sociali note». Un muro sulla cui insorgenza pesa anche un altro fenomeno ben conosciuto e studiato: quello della gentrificazione che ha portato alcuni quartieri operai e popolari ad attirare negli ultimi decenni soprattutto artisti, intellettuali, lavoratori della conoscenza in genere che hanno trovato in questi rioni la dimensione ideale per sé stessi e le loro reti sociali.
«Se da un lato la gentrificazione toglie queste zone dal degrado, con l’aumento di attività e servizi, dall’altro le priva della propria identità sociale e storica», sottolinea il prof. Nuvolati. La conseguenza più visibile della gentrificazione è ancora una volta l’aumento dei prezzi degli alloggi, con le classi native dei quartieri che vengono rapidamente sostituite da abitanti più agiati, oppure con le abitazioni che vengono trasformate in strutture ricettive spesso improvvisate. La gentrificazione porta insomma interi quartieri a perdere i loro abitanti “autoctoni” con tutto il loro carico culturale, sociale e anche simbolico, per riempirsi, sottolinea Alfredo Mela, «di popolazione temporanea, turisti, studenti o di quelli che Guido Martinotti chiamava businessmen metropolitani che si spostando da una città all’altra senza vivere stabilmente in una».
Il fenomeno della gentrificazione, tuttavia, permette di confutare una delle tesi molto in voga negli ultimi anni, soprattutto durante la pandemia: quella della crisi di attrattività delle città. Secondo il sociologo Nuvolati «le città non hanno affatto perso il loro appeal, ma sono tornate in breve tempo ad essere attrattive, visto che sono il centro dell’innovazione e l’uomo essendo animale sociale ha bisogno di questi contesti in cui tessere le proprie reti». La pandemia non ha intaccato l’appeal delle città neanche per il sociologo Alfredo Mela, che rileva come il Covid «ha messo in luce la necessità (spesso inascoltata, ndr) di dare impulso alla sanità, ai servizi locali, a quelli di prossimità. Si è parlato a lungo di città dei 15 minuti, ma oggi parlerei più di “capsularizzazione” delle città che sono composte da tanti pezzi di un unico mosaico, ognuna con una propria funzione, per rispondere a specifici bisogni (non a caso si sentono spesso formule come città della salute, della scienza o della cultura)».
Eppure, secondo il prof. Nuvolati oggi le città soddisfano soprattutto un particolare tipo bisogno: quello di partecipare a eventi, spettacoli, iniziative varie. «Un tempo c’era la città-fabbrica, poi quella basata sul terziario, oggi c’è la città-vetrina che spettacolarizza tutto ed è il set di spettacoli musicali, concerti, gare sportive. È insomma il luogo dove tutto accade e dove perciò tutti vogliono essere per assistere e partecipare». Tutt’altro che in calo di attrattività, le città continuano ad essere ambite, e proprio l’aumento del loro costo ne è un indicatore. Il prezzo aumenta perché aumenta la domanda, è una vecchia regola dell’economia. La città insomma continua a piacere, ma non tutti se la possono permettere. Secondo Alfredo Mela, in questo può giocare un ruolo anche la politica che «può aiutare a regolarizzare fenomeni come la gentrificazione a cui in passato ha persino favorito con le proprie politiche. Si pensi ad alcuni governi del Nord Europa che in passato hanno involontariamente incentivato il popolamento dei centri urbani che si stavano svuotando. Contro la gentrificazione non si deve essere inermi, si possono fare interventi di riqualificazione dello spazio pubblico, senza che questi promuovano la sostituzione sociale di interi ceti della popolazione, ma favoriscano la commistione e la mistura tra classi». In due parole sole: mescolanza e inclusione, vere e proprie sfide per le città che conservano il proprio fascino, ma lo fanno a caro prezzo per i più deboli.