La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
La trasformazione economica che ha portato a un mondo sempre più connesso non si è fermata. Ma si è spezzato il modello americano perché si vuole porre fine alle diseguaglianze di reddito. Changes ne parlato con Ian Bremmer.
La globalizzazione è morta, viva la globalizzazione. Gli epocali cambiamenti che si stanno squadernando sotto gli occhi del mondo contengono il paradosso di una discontinuità dentro una continuità, l’alba dentro l’imbrunire, se è lecito usare un verso di Battiato per decifrare i grandi schemi della geopolitica. Ian Bremmer, politologo specializzato in rischi globali e presidente dell’Eurasia Group, spiega che «non siamo alla fine della globalizzazione, ma alla fine di questa globalizzazione», perché il secolare processo di integrazione e mobilitazione di persone, merci, informazioni, competenze e tecnologie che ha reso più tenui i confini del vecchio mondo degli stati-nazione non era un fenomeno neutrale: «A partire dall’ordine globale stabilito dopo la Seconda guerra mondiale, la globalizzazione ha coinciso con l’americanizzazione», ha detto Bremmer, postulando la grande frattura che segnerà il futuro prossimo.
«La globalizzazione nel suo senso più elementare, la trasformazione economica che riguarda il movimento di cose e persone in un mondo sempre più connesso, non si fermerà di certo, ma l’architettura americana di valori e ideali che ha animato e sostenuto la globalizzazione così come la conosciamo si è spezzata. L’elezione di Donald Trump ha infilato un cuneo nell’ingranaggio, mettendo fine alla pax americana», ha spiegato il politologo che da anni parla di un mondo “G0”, senza la trazione dominante di un’unica potenza.
L’errore di molte analisi degli ultimi decenni è stato quello di scambiare un modello della globalizzazione per il framework invincibile e definitivo: «Non ho mai pensato che il modello liberale americano fosse lo stadio finale, e chiunque lo guardava con attenzione si sarebbe reso conto del rapido emergere del resto», dove Bremmer per “resto” intende non tanto le economie emergenti ma soprattutto il diverso paradigma di globalizzazione che queste affermano. Per questo al termine “resto” preferisce la categoria della “differenza”.
Due immagini sintetizzano la fine di questa globalizzazione. La prima è la cerimonia di insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, con un discorso a tinte fosche culminato in una promessa al popolo frustrato: «D’ora in poi una nuova visione governerà il nostro paese, da oggi in poi ci sarà soltanto America First». Il grido “America First” che risuona nel cielo di Washington fa da contrappunto alle parole pacate di Xi Jinping al World Economic Forum di Davos, dove il presidente cinese si è presentato per la prima volta per fare un grande elogio della globalizzazione e bastonare il protezionismo, che equivale a chiudersi in una stanza buia, tenendo fuori aria e luce. Una ricetta per il soffocamento.
Che cosa ha messo in crisi la globalizzazione a propulsione americana, incoronando il populismo nazionalista di Trump e alimentando i movimenti antisistema che attraversano l’Europa? «Le diseguaglianze economiche hanno giocato un ruolo fondamentale ed è questa la chiave per interpretare correttamente la vittoria di Trump e la Brexit» ha detto Bremmer. «Sono fenomeni di frustrazione economica, riflettono un divario di reddito difficile da sostenere, la ‘identity politics e i nazionalismi sono catalizzatori di questi elementi, non sono l’origine. In America la questione identitaria è più forte rispetto all’Europa, e lo stesso le elezioni si sono giocate, in fondo, sul tema della disuguaglianza». Bremmer nota che questa globalizzazione era trainata dalla manodopera a basso costo, fondamentale per produrre merci a buon mercato in modo conveniente, ma con la quarta rivoluzione industriale, la rivoluzione post digitale, la forza lavoro non occupa più un posto così importante e quello che domina è lo sviluppo tecnologico.
Significa che questo scenario di frammentazione, dove i confini si fanno più marcati e si parla di muri più che di frontiere aperte, non è che una confusa risposta alla crescente disuguaglianza. «Bisognerà capire come i cambiamenti a livello produttivo reagiranno con l’ondata di politiche protezioniste che si sta alzando di fronte a noi», ha detto Bremmer. Nel libro Superpower, uscito nel 2015, delineava le tre opzioni che gli Stati Uniti avevano per ridefinire il proprio ruolo nel mondo. La prima era un deciso ritorno al ruolo di poliziotto del mondo ed esportatore di valori liberali; la seconda era una postura più pragmatica per continuare a muovere i fili nel mondo ma senza l’invadenza e la forza di un tempo; la terza consisteva nel ripiegamento verso di sé, un movimento introflesso che mette l’interesse nazionale, nel suo senso più stretto, al primo posto e manda in soffitta l’idea della diffusione dei valori universali. Nemmeno Bremmer si aspettava che l’America virasse con tanta decisione versa la terza ipotesi: «Il populismo a sfondo economico ha accelerato questa transizione e ha chiuso la fase americana della globalizzazione» nota Bremmer.