Bellezza: il canone lo dettano i social
Internet, e i social in modo particolare, hanno dato a tutti noi la possibilità di mostrarci ad una platea virtualmente infinita di persone, con i potenziali vantaggi che ne conse
Il Prodotto interno lordo (PIL) descrivere lo stato economico di una Nazione al presente. Ma se guardiamo al futuro, è la capacità di innovare che fa la differenza. Changes ne ha parlato con Stefano Denicolai.
Cosa descrive lo stato economico di una nazione? Ci sono i dati sul PIL, quelli sull’occupazione, sulla produzione industriale, la tendenza dell’inflazione, gli indicatori sui consumi, il deficit, il debito pubblico. Sono tutti pezzi di un mosaico capace di raccontare un contesto, di descrivere il presente di una economia. Ma tra questi indicatori ce ne è uno che troppo spesso è ignorato: la capacità di un sistema economico di innovare. Certo, è un dato molto sfaccettato, che magari ci dice poco sull’oggi, ma tanto sul domani. Perché, se uno Stato oggi innova poco, probabilmente domani produrrà ancora meno e vedrà tutti quegli indicatori soffrire pesantemente.
Prendiamo il nostro Paese. L’Italia soffre ormai da anni di una crescita molto stentata e se guardiamo al domani c’è molto poco da essere ottimisti. Ogni anno la Commissione Europea dal 2002 pubblica lo European Innovation Scoreboard (EIS), strumento che fotografa la performance di ricerca, sviluppo e innovazione dei Paesi dell’Ue. Il ranking li divide in quattro categorie (Leader dell’Innovazione, Innovatori Forti, Innovatori Moderati ed Emergenti). L’Italia occupa la sedicesima posizione come un paese definito “innovatore moderato”.
E allora, quale futuro ci aspetta? Changes ne ha parlato con Stefano Denicolai, docente di management dell’innovazione presso l’Università di Pavia che sottolinea come «da anni l’Italia occupi posizioni mediane di quella classifica, che evidenzia alcuni aspetti positivi, tra cui la capacità innovatrice delle PMI e la vivacità delle startup della sostenibilità, ma anche molti fattori deludenti su cui riflettere».
In particolare, secondo l’EIS, l’Italia è afflitta da una percentuale molto bassa di laureati e di competenze digitali, da una scarsa capacità di attrarre i talenti internazionali e da una bassa mobilità del lavoro che pregiudica l’indispensabile contaminazione dei saperi e di know how tra i settori.
Gli scarsi investimenti pubblici in innovazione
Secondo il professore Denicolai c’è un aspetto che più degli altri condiziona tutto il nostro sistema dell’innovazione. «In Italia si investe poco in innovazione, soprattutto se compariamo questo dato con i nostri partner», osserva Denicolai. «Nazioni come gli Stati Uniti non hanno solo un fertile settore del venture capital a supporto delle aziende innovative e delle startup, ma presentano anche finanziamenti pubblici copiosi». Un esempio, secondo Nicolai è dato da una delle istituzioni al mondo campione di innovazione: il MIT di Boston. «I suoi fondi derivano per l’80% dal pubblico e per il 20% dal privato. Sono percentuali impensabili per noi».
Secondoi dati Eurostat 2023, infatti, il nostro Paese è solo undicesimo in UE per investimenti in innovazione pro capite con 226,60 euro a persona, ben distante dai vertici della classifica occupata da Lussemburgo (646,6 euro), Danimarca (552,4 euro) e Germania (529,3 euro).
Le grandi aziende italiane e l’ecosistema delle startup
Secondo Denicolai, l’Italia è priva di una a consolidata tradizione del venture capitalism, pochi e mal strutturati business angel e un sistema di grandi aziende molto diverso da quello americano o di altri campioni di innovazione. In termini di capacità di innovazione quello che manca al nostro paese sono infatti quei campioni della digitalizzazione che nei grandi paradisi dell’innovazione trainano letteralmente il mercato. Da noi, insomma, non ci sono le Amazon, le Meta, le Alphabet, le Microsoft capaci di muovere da sole una grande quantità di finanziamenti e competenze. «Le grandi aziende italiane capiscono sempre di più l’importanza di investire in innovazione e di supportare il variegato ecosistema delle startup, ma lo fanno ancora con fatica e troppo spesso assistiamo a un autentico innovation theater, cioè una sorta di green washing applicato all’innovazione. Si parla tanto di open innovation, di contamination, di digitalizzazione ma i risultati sono pochi e spesso di facciata, buoni solo a livello di reputazione del marchio».
Se guardiamo l’ecosistema delle startup, inoltre, Scalapay, Satispay, Bending Spoons e infine iGenius, sono gli unici “unicorni” nostrani, ovvero le uniche giovani aziende innovative ad aver superato la valutazione di 1 miliardo di euro. «Per il resto il confronto con gli altri Paesi europei è impietoso», dice Denicolai. Secondo il database di CB Insights, infatti, nel mondo ci sono oltre 1.221 aziende unicorno localizzate in 51 Paesi: il 54,1% si trova negli Stati Uniti; il 14% in Cina; il 5,8% in India; il 4,1% nel Regno Unito; il 2,5% in Germania. Ovviamente l’Italia è allo zerovirgola.
Ma a cosa è dovuta questa debolezza del nostro sistema? Ancora una volta, le cause sembrano essere strutturali. «Le startup – dice – nella loro fase iniziale hanno bisogno di incubatori che aiutino l’avvio del business, necessitano di acceleratori per trovare finanziamenti tra enti pubblici, aziende, business angel oppure fondi di venture capital (che finanziano grosse somme di denaro). Da noi tutto questo è debole», afferma Denicolai.
Le competenze digitali e la formazione
In questo contesto, c’è un elemento che è causa, ma anche effetto, della debolezza strutturale del nostro sistema innovativo: la mancanza di competenze digitali, o la loro distribuzione poco uniforme a livello territoriale e generazionale. «Quando spesso si denuncia questa nostra arretratezza si sbaglia secondo me focus», spiega Denicolai. «Il problema non è la mancanza di corsi dedicati ai temi della digitalizzazione, ma il metodo con cui queste materie si insegnano. Il nostro approccio didattico è rimasto antiquato con docenti spesso poco formati».
Stimolare l’innovazione del Paese è insomma una questione composita, fatta di cose concrete come i finanziamenti adeguati ed altre più di processo e approccio. «L’obiettivo è far uscire il prima possibile dalla solitudine quei tanti imprenditori italiani, veri esempi di innovazione, che guidano le nostre PMI e ci permettono ancor’oggi di competere su scala globale. Dei veri e propri eroi», conclude Denicolai.