Guerre popolari

Society 3.0


Guerre popolari

Ha senso leggere l’Eurovision come una contesa tra Stati? Changes lo ha chiesto a Giacomo Natali che racconta perché dobbiamo guardare al mondo dello spettacolo in chiave geopop.

Dal 7 all’11 maggio presso la Malmö Arena, in Svezia, andrà in scena il concorso Eurovision 2024. Per l’Italia parteciperà Angelina Mango con La noia, che i bookmaker danno per seconda classificata, mentre secondo i pronostici a vincere saràla Croaziae al terzo posto si piazzerà l’Ucraina.

In attesa di sapere se le previsioni sono azzeccate, vanno segnalate le polemiche degli ultimi mesi, con la canzone presentata da Israele cheè stata ammessa alla gara solo dopo che il titolo è mutato da October rain, possibile riferimento all’attacco del 7 ottobre 2023, a Hurricane.  Abbiamo chiesto a Giacomo Natali, analista di comunicazione e geopolitica e autore di Geopolitica pop (Treccani), se le discussioni su Israele sono fondate e soprattutto.

Ha senso mescolare politica internazionale e cultura pop?

Se c’è un ambito nel quale ha sicuramente senso è proprio l’Eurovision, che anche se formalmente è un evento apolitico, possiede invece una natura politica da qualunque parte lo si osservi. Lo è stato fin dalla sua ideazione nel dopoguerra come strumento per la pacificazione europea dopo la Seconda guerra mondiale. Lo è per i valori progressisti che caratterizzano da decenni la manifestazione. Ma soprattutto, per via del suo curioso e geniale regolamento, che costringe a votare per un Paese diverso dal proprio, è diventato nel tempo anche un terreno dove ogni Paese pesa ed esercita ogni anno davanti a un pubblico di 200 milioni di persone il proprio cosiddetto soft power: ovvero la capacità di influenzare gli altri paesi non attraverso la forza ma con l’attrazione della propria identità e della propria cultura. Un meccanismo che ha portato nel tempo anche alla controversa costruzione di blocchi di voto tra paesi amici, oppure accese rivalità tra paesi in conflitto anche nel mondo reale. Non solo col recente caso di Israele, ma anche Russia e Ucraina, Armenia e Azerbaijan, oppure persino Inghilterra e Spagna al tempo della guerra delle Falkland/Malvinas.

Ci sono altri ambiti, oltre la musica pop, in cui la politica estera di uno Stato si è tradotta in un prodotto culturale, come film, moda o serie tv?

La musica è stata uno dei primi ambiti nei quali ho iniziato a osservare questi cortocircuiti tra cultura pop e conflitti internazionali. Ma una volta che si inizia a farci caso, ci si rende conto di quanto questo fenomeno riguardi in realtà tutti i prodotti culturali di massa, come appunto film, serie tv, cartoni animati, video su Youtube e TikTok. Oppure i videogiochi, che a livello globale hanno ormai un fatturato superiore a tutta la musica e al cinema messi insieme e che dunque, in particolare per i giovani, rappresentano sempre di più il principale punto di accesso a informazioni e narrazioni che riguardino gli altri paesi e le altre culture. E che dunque contribuiscono in modo decisivo a costruire l’immagine che si ha del mondo, compreso chi sia da considerare amico e chi “altro”, diverso, oppure nemico.

Qual è il rapporto tra produzione culturale e governi: chi detta la linea a chi? Può farci alcuni esempi delle relazioni tra i due?

Semplificando, si possono individuare due tipologie fondamentali di legame tra pop e potere. Da un lato i casi in cui c’è un uso consapevole, propagandistico o strategico da parte di alcuni soggetti internazionali. Spesso questo è il caso di chi si trova impegnato in un conflitto e usa anche il proprio soft power per raccogliere sostegno internazionale. Un caso da manuale è quello della Corea del Sud, che ha consapevolmente deciso di inserire nella propria strategia di difesa anche la promozione globale della propria cultura pop. Il successo delle band K-pop, delle serie tv come Squid Game e di film come Parasite non è dunque casuale, ma fa proprio parte di una strategia per garantirsi sostegno internazionale e soprattutto lo scudo militare e atomico americano contro le minacce della Corea del Nord.

Dall’altro, però, ci sono tantissimi casi in cui non c’è una vera strategia coordinata dietro a fenomeni pop che assumono un significato geopolitico. Ma sono semplicemente legati al fatto che il nostro consumo mediatico è oggi il modo principale attraverso il quale ci costruiamo un’idea del mondo. In pochi hanno opportunità di conoscere davvero altri paesi. E allora la nostra percezione ci viene in gran parte dalle storie che sentiamo. E certamente più efficaci della voce di politici o giornalisti, sono le canzoni, i libri, i film che ci trasmettono il tutto anche facendo leva sul nostro lato emotivo.

Di recente l’Arabia saudita ha investito cifre enormi in eventi sportivi e, sempre di più, spende per i settori dell’architettura, della sostenibilità e dell’alta cucina. Alla lunga può bastare il soft power a far dimenticare i limiti democratici di un Paese? Uno Stato autoritario può sedurre in questo modo chi non vi risiede?

Diversi casi sembrano indicare che occorra effettivamente una certa coerenza tra la narrazione e i valori che si rappresentano. Pensiamo per esempio all’insuccesso di Turchia e Russia nello sfruttare altrettanto abilmente di Svezia e Ucraina la visibilità offerta dall’Eurovision. Mentre per questi ultimi si trattava di una piattaforma ideale per trasmettere modernità, diversità e rispetto dei diritti civili, Turchia e Russia nel lungo termine si sono dimostrate incompatibili con questi valori. E dopo successi iniziali ma effimeri, hanno addirittura abbandonato la manifestazione (la Turchia) o ne sono stati cacciati (la Russia). Entrambe, però, non hanno incontrato altrettante difficoltà nel posizionare a livello globale altri prodotti di successo, come i cartoni animati russi o le telenovele turche. Inoltre, sarebbe un errore identificare il pubblico dei Paesi europei come l’unico obiettivo di queste campagne di seduzione culturale. Spesso le campagne di paesi come Cina, Russia e Arabia Saudita si rivolgono prima di tutto ai Paesi del sud del mondo, dove le preoccupazioni democratiche sono decisamente secondarie rispetto ad altre priorità, sia concrete che valoriali.

Insomma, dovremmo guardare a ogni fenomeno culturale come un’estensione della politica?

Scherzando ma non troppo, quando parlo di geopolitica pop paragono la reazione di chi ascolta alle fasi dell’elaborazione del lutto. Prima c’è la negazione: «Ma cosa c’entrano queste cose!». Poi arriva la rabbia: «Basta infilare la geopolitica dappertutto!». Poi la fase di patteggiamento: «In effetti anche la Guerra Fredda si è giocata prima di tutto a suon di rock & roll e film di Hollywood». Si arriva così alla quarta fase, la depressione, che in effetti talvolta diventa paranoia e complottismo: «I nostri bambini guardano cartoni di propaganda putiniana… oppure americana…». Ecco, questo libro vuole essere lo strumento attraverso il quale arrivare alla quinta fase, quella dell’accettazione: del capire che questo legame c’è e che noi ne siamo continuamente vittima, ma ne siamo anche protagonisti. Perché è attraverso il nostro consumo mediatico quotidiano che ciascuno di noi partecipa a questa sorta di geopolitica del quotidiano, che alla lunga ha un ruolo anche sulla geopolitica vera e propria. Quindi non è questione di boicottare Masha e Orso, oppure la Disney. Anzi, conoscere l’altro è fondamentale. L’importante però è riconoscere e capire che ci siano livelli multipli in ogni prodotto culturale, anche quello apparentemente più semplice. E così non esserne vittime passive, ma soggetti consapevoli.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​