Copyright: cosa cambia sul web

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Copyright: cosa cambia sul web

Approvata la norma che obbligherà i giganti di Internet a retrocedere i proventi del copyright. Sarà un freno per l’innovazione?

Approvata la norma che obbligherà i giganti di Internet a retrocedere i proventi del copyright. Sarà un freno per l’innovazione?

«Se quel negozio di ciambelle laggiù regalasse a tutti i clienti una tazza di caffè, andrebbe di sicuro in bancarotta. Offrire i siti internet dei giornali gratuitamente, è stato uno degli errori più stupidi». Tutelare le ciambelle, nell’era di internet, è molto più semplice che difendere la proprietà intellettuale. Se n’è accorto Reade Brower, l’anti-Murdoch d’America, già editore di decine di giornali locali. E se n’è accorto anche il Parlamento Europeo, che mercoledì 12 settembre ha approvato la Direttiva Europea sul copyright. Cosa cambia? Adesso giornalisti, editori, musicisti e creativi di ogni genere dovranno essere retribuiti per l’utilizzo delle proprie creazioni da piattaforme di condivisione come YouTube o Facebook e aggregatori di notizie come Google News. E i colossi di Internet diventano responsabili per ciò che compare sulle loro piattaforme e anche dell’uso che ne viene fatto. Si tratta di un passo avanti importante nella tutela del diritto d’autore anche se non è definitivo: manca ancora il parere del Consiglio europeo.

La cosiddetta Direttiva Barnier vincola i Paesi dell’Unione a tutelare il diritto d’autore. Soprattutto in Rete, dove i proventi del copyright restano più difficili da attribuire ai legittimi detentori. Case discografiche, artisti, giornali e produttori cinematografici – tra gli altri – sperano di potersi “riappropriare” di quello che considerano un “esproprio” da parte delle piattaforme online. Pur non producendo contenuti – l’atto d’accusa – Google e Facebook genererebbero traffico e quindi proventi pubblicitari, capitalizzando gli investimenti altrui nella produzione di contenuti proprietari.

Ma mentre l’Europa, nel 2018, avverte la necessità di proteggere la proprietà intellettuale nell’era digitale, nel 2012 Michele Boldrin e David Levine davano alle stampe Abolire la proprietà intellettuale (Laterza) che affronta il tema da un’altra prospettiva. La decisione dell’Europarlamento è quindi ingiustificata e la protezione della proprietà intellettuale un concetto perlopiù superato? «Più che di concetto superato, preferisco parlare di monopolio ingiustificato», spiega a Changes Michele Boldrin, economista e docente alla Washington University in Saint Louis. «La giustificazione che tutti danno per la proprietà intellettuale è che sia un male minore. Concederebbe potere di monopolio, distorcendo la concorrenza, ma senza quel potere di monopolio, non ci sarebbero le innovazioni che beneficiano gli utenti. La ricerca empirica mette però in discussione questa affermazione. Vi sono ormai pochi dubbi: la proprietà intellettuale riduce linnovazione. Nei fatti i brevetti frenano l’innovazione, perché è la concorrenza che la incentiva», ragiona Michele Boldrin.

Provare a proteggere la proprietà intellettuale nell’era di Internet, perciò, non sarebbe solo anacronistico, ma finirebbe per frenare la concorrenza e quindi l’innovazione, privando quindi la società dei benefici che ne conseguono. Eppure potrebbe apparire come un controsenso proporre di abolire la proprietà intellettuale, mentre alcune industrie come quella editoriale e musicale hanno vissuto il crollo globale dei fatturati, proprio in coincidenza con la diffusione della rete e della disponibilità su scala globale di contenuti protetti dal diritto d’autore. «L’introduzione delle lampadine elettriche distrusse l’industria delle candele. Le tecnologie si evolvono, e per quanto riguarda la creazione e diffusione di notizie, opere letterarie e musicali, il copyright resta solo uno strumento deleterio. Nel mondo della musica, dopo le controversie su Napster, l’adattamento è avvenuto. Avverrà anche altrove, perché la protezione monopolistica che offre il copyright, serve solo a ridurre la diffusione di cultura ed informazione. Sussidiando aziende ormai obsolete, a scapito di aziende innovative», ribatte il docente della Washington University in Saint Louis.

Proteggere in modo assoluto il copyright frena l’innovazione

​Tornando alle ciambelle, però, se internet non ha introdotto l’opportunità di riprodurre un dolce di proprietà di una pasticceria, la rete ha consentito la riproducibilità – su scala globale – di beni e servizi digitali come film, musica, libri e giornali. Davvero non si dovrebbe più perseguire chi viola il diritto d’autore, nei casi in cui riproduce un bene prodotto da un’azienda che ne ha sostenuto il costo di produzione? «Diventa uno spreco di risorse perseguire chi riproduce un film per uso personale. Sarebbe un po’ come mettere cinque poliziotti in ogni piccolo negozio per evitare che qualcuno si porti via qualche mela. E impedire l’uso di tecnologie che permettono di riprodurre libri, musica o film acquisiti legalmente, resta un ostacolo alla diffusione della cultura. Genera profitti di monopolio, laddove non sono necessari. Il cantante pop o l’attore medio farebbero comunque quel lavoro, anche guadagnando un decimo, se venissero eliminate le rendite monopolistiche che costituiscono il 90% rimanente», spiega Michele Boldrin.

Eppure il timore principale di aziende e innovatori che corrono a brevettare un’idea sviluppata in laboratorio, resta quello di perdere il controllo dellinvenzione, che potrebbe così finire per essere utilizzata su scala commerciale da qualcuno che semplicemente non avrebbe contribuito allo sviluppo della stessa. Abolire la proprietà intellettuale, insomma, potrebbe cannibalizzare gli innovatori e proteggere, di fatto, chi viola il lavoro altrui. «Non è assolutamente così e la ragione è banale: il vantaggio dellinnovatore non si elimina in poco tempo. Basti pensare all’aspirina o a mille casi simili. Inoltre chi adotta l’innovazione o la copia, ha fatto investimenti sostanziali per essere in grado di riprodurla. Imitare e migliorare crea concorrenza. E la concorrenza promuove l’innovazione. Lo provano i fatti: nei Paesi dove non c’è concorrenza, non c’è innovazione. E nei settori dove non c’è concorrenza, l’innovazione ristagna o è assente», conferma l’economista italiano di stanza negli Stati Uniti.

La proprietà intellettuale non va abolita, secondo Boldrin, ma non va protetta in maniera assoluta. «Sarebbe più sensato ridurre progressivamente i diritti di proprietà intellettuale, accorciando la durata dei brevetti e limitandone i campi di applicazione. Gli innovatori capaci fanno enormi profitti anche in presenza di concorrenza, basta guardare al mondo dell’elettronica e dei cellulari, o al settore automobilistico in cui l’imitazione è continua, nonostante i brevetti che creano solo costi legali aggiuntivi. I brevetti sono come i dazi doganali o le restrizioni al commercio. Vanno lentamente, ma progressivamente ridotti, sino all’abolizione».

Giornalista, lavora ad Agorà (Rai3). È autore di Play Digital (RaiPlay). Scrive per il Corriere della Sera, le testate RCS, Capital e Forbes. È autore di saggi per l'Enciclopedia Italiana Treccani e ha lavorato in qualità di regista e autore per Quante Storie (Rai3), Codice (Rai1), Tg La7 (La7), Virus (Rai2), Night Tabloid (Rai2), Il Posto Giusto (Rai3), Web Side Story (RaiPlay). È autore del libro: “Guida per umani all’intelligenza artificiale. Noi al centro di un mondo nuovo" (Giunti Editore, Firenze, 2019). Ha vinto i premi giornalistici "State Street Institutional Press Awards" e "MYllennium Award”. ​