Il lessico calcistico è più veloce della palla
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Il "cigno nero" dell'epidemia sta manifestando tutte le sue conseguenze su un settore già messo a dura prova da altri fattori. Decine e decine di fabbriche chiuse e centinaia di migliaia di lavoratori a casa sono solo il primo prezzo da pagare.
Il “cigno nero” dell’epidemia sta manifestando tutte le sue conseguenze su un settore già messo a dura prova da altri fattori. Decine e decine di fabbriche chiuse e centinaia di migliaia di lavoratori a casa sono solo il primo prezzo da pagare.
Il 2020 sarà probabilmente ricordato per anni, se non per decenni, come uno dei peggiori anni dell’intera umanità. Già il fatto fosse bisestile era di cattivo augurio, ma nessuno poteva pensare a qualcosa di simile all’epidemia, o meglio pandemia, del coronavirus. Che sarebbe stato un anno complicato erano in molti a dirlo. Ma quanto sta avvenendo da gennaio in poi sta assumendo contorni senza precedenti nella storia moderna. Neanche la recessione successiva al fallimento della Lehman Brothers aveva creato danni anche solo minimamente confrontabili e, tra l’altro, in un lasso di tempo così breve. L’economia globale ne sta pagando già ora conseguenze mai viste prima. Del resto mai prima era comparso un evento del genere a funestare le vite di miliardi di persone. L’ultima grande pandemia, la spagnola del 1918-1920, si era trovata la strada spianata dalle conseguenze della prima guerra mondiale ma non era comparsa in un mondo globalizzato come quello attuale dove qualsiasi cosa corre a una velocità impensabile fino a 100 anni fa e tutto viene moltiplicato come non mai.
Oggi la situazione è drammatica: un piccolissimo batterio ha trasformato in realtà le paure su quel paventato cigno nero capace di abbattere economie sostanzialmente in salute, a partire dalla Cina e dagli Stati Uniti. E proprio dall’ex Celeste Impero sono arrivate notizie che oggi si stanno replicando, pari pari, anche nel mondo occidentale. Le misure di contenimento draconiane varate dalle autorità di Pechino hanno paralizzato la vita e l’economia locale e di riflesso tutto il mondo delle quattro ruote: le fabbriche chiuse una dietro l’altra (a partire dalla città di Wuhan, epicentro della crisi, e dalla sua provincia, l’Hubei, per arrivare progressivamente a tutto il Paese), i concessionari del tutto inattivi per l’azzerata affluenza dei clienti, il sostanziale deserto delle strade e le attività quasi completamente ferme hanno determinato un crollo dei volumi produttivi e delle vendite. I dati sono impietosi. Febbraio è stato il peggior mese in quasi 15 anni per il settore automobilistico cinese: sono stati venduti solo 310 mila veicoli, il 79,1% in meno rispetto al corrispondente periodo dell’anno scorso a causa della paralisi legata all’epidemia del coronavirus.
In sostanza un settore messo ko nel giro di un mese, ma le conseguenze a livello globale rischiano di essere ancor più pesanti. Il perché è presto detto: la diffusione del coronavirus nei Paesi europei prima e nelle Americhe poi ha determinato decisioni sì drastiche ma spesso in ritardo rispetto a quanto deciso da Pechino, forte della sua struttura politica non certo democratica e liberista come in Occidente. La risposta del settore non si è fatta comunque attendere: tutti i grandi costruttori, nessuno escluso, hanno dovuto prendere atto delle frequenti interruzioni delle catene di approvvigionamento (causate anche dalla chiusura delle dogane) e di un improvviso crollo della domanda (determinato anche dalla paralisi delle reti di vendita) e quindi optare per la sospensione delle attività in centinaia di stabilimenti.
La serrata ha spinto le associazioni di categoria a lanciare allarmi circostanziati e drammatici. L’avvertimento dell’Acea, per esempio, è emblematico: il coronavirus rischia di mettere in ginocchio il settore e di minacciare il suo stesso futuro e quello dei suoi lavoratori. Solo nei Paesi membri dell’Unione Europea si contano 229 impianti di assemblaggio e 2,6 milioni di addetti alla produzione, che salgono a 13,8 milioni con l’indotto. «L’effetto sulla società e sull’economia globale è senza precedenti, con gravi conseguenze per l’industria automobilistica», avverte l’associazione europea dei costruttori. «È chiaro che questa è la peggiore crisi che abbia mai avuto un impatto sull’industria dell’auto», aggiunge il direttore generale Eric-Mark Huitema. «Con l’arresto di tutta la produzione e la chiusura della rete di vendita, sono in gioco i posti di lavoro di circa 14 milioni di europei».
Per questo l’Acea ha chiesto alla Commissione Europea misure concrete per evitare «danni irreversibili e fondamentali al settore con una perdita permanente di posti di lavoro, di capacità produttiva, di innovazione e di competenze nella ricerca» e iniziative per stimolare una rapida ripresa. Interventi urgenti e indispensabili sono stati chiesti al governo italiano anche dall’Unrae. Secondo l’associazione italiana delle Case estere, «l’epidemia, in aggiunta ai suoi costi umani e sociali, potrebbe comportare pesanti impatti, diretti e indiretti». In particolare, senza interventi “tempestivi e robusti” e in caso di un deterioramento ulteriore dell’emergenza, il mercato rischia un calo delle vendite di circa 300 mila veicoli (circa il 15% in meno) rispetto al 2019 nel solo comparto delle autovetture. «È di tutta evidenza – aggiunge l’associazione – che in termini occupazionali si potrebbe registrare un impatto di migliaia di unità nella sola catena di distribuzione e assistenza automobilistica, senza considerare i mancati introiti per le finanze pubbliche».
Parlano chiaro i dati forniti dalla stessa Acea sulla base delle sospensioni delle attività annunciate dai vari costruttori fino al 9 aprile. In Europa, a fronte di un periodo di chiusura medio di 18 giorni lavorativi, il settore ha perso volumi produttivi per 1.465.415 veicoli. Drammatico l’impatto della serrata sulla forza lavoro: sempre sulla base dei dati al 9 aprile le chiusure hanno coinvolto 1.138.536 persone direttamente impiegate nella fabbricazione di automobili, camion, furgoni e autobus, su un totale di 2,6 milioni di lavoratori. E la conta del dramma non tiene conto delle attività dei fornitori. L’Acea avverte come l’impatto della crisi «sull’intera filiera automobilistica sia ancor più critico».
Un quadro ancor più pessimista è stato delineato dalla federazione dei concessionari. «L’impatto che l’emergenza Covid-19 sta avendo sui dealer è allarmante», sostiene Adolfo De Stefani Cosentino, presidente di Federauto. «Il rischio concreto è di compromettere la continuità aziendale e la sopravvivenza stessa delle imprese». La federazione sottolinea come le crisi economico-finanziarie del 2008 e del 2011 abbiano portato ad un «brusco rallentamento delle immatricolazioni di autovetture nuove – quello in cui è maggiore il peso degli acquisti da parte delle famiglie italiane – che si è tradotto in una netta diminuzione del numero dei concessionari, passati da 2.950 nel 2007 a 1.373 nel 2019». Al 23 marzo Federauto stimava per il 2020 «una flessione delle immatricolazioni del 60%, con un’ulteriore contrazione delle reti di vendita», e per il solo mese di marzo un tracollo della domanda di ben l’80%. A rincarare la dose ci pensa sempre l’Unrae: «Da quando sono state applicate all’intero territorio nazionale le misure di contenimento dell’epidemia – afferma il direttore generale Andrea Cardinali -, il mercato delle autovetture in Italia ha registrato un vero e proprio tracollo, con ormai poche decine di immatricolazioni al giorno e una previsione per l’intero mese di Marzo di meno di 30 mila unità contro le 194 mila di marzo 2019».
Tutti gli allarmi riguardano il breve e il medio termine, ma le conseguenze potrebbero manifestarsi anche nel lungo periodo e in particolare sui processi di innovazione avviati dai costruttori per adeguarsi ai nuovi limiti sulle emissioni. Cardinali avverte del «fortissimo rischio da parte dell’industria automobilistica Europea di non raggiungere gli sfidanti obiettivi di abbattimento delle emissioni di Co2 in vigore a partire da quest’anno, con il risultato di dover pagare onerose multe a causa dell’interruzione delle catene di fornitura dei componenti elettrici per i veicoli a basse emissioni, a fronte di volumi di mercato falcidiati, una situazione insostenibile dal punto di vista finanziario». È quindi «urgente la predisposizione da parte delle istituzioni Europee e nazionali, durante e dopo l’emergenza, di misure integrate e coordinate, sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta, a supporto della filiera automotive continentale, che occupa quasi 14 milioni di persone e potrebbe fungere da traino alla ripresa economica, visto il suo peso sul PIL e l’effetto moltiplicatore dei suoi ingenti investimenti, circa 60 miliardi di euro ogni anno».
In tale quadro va letta la decisione dell’Acea e delle associazioni dei fornitori Clepa, dei produttori di pneumatici Etrma e degli autoriparatori Cecra di inviare una lettera al presidente della Commissione Ursula von der Leyen per chiedere esplicitamente una moratoria, almeno per il 2020, dei vincoli sulle emissioni. «Nessuna attività produttiva, di sviluppo, di sperimentazione o di omologazione è al momento in corso», spiegano le associazioni. «Tutto ciò sconvolge i piani che avevamo definito per prepararci a rispettare le leggi e i regolamenti attuali e futuri dell’Unione europea entro i termini stabiliti. Riteniamo, quindi, che occorra apportare qualche aggiustamento alle tempistiche di queste leggi». In sintesi: le aziende sono ora concentrate sulla sopravvivenza e non possono pensare al futuro, quindi serve più tempo.
La richiesta delle associazioni non fa che confermare quanto messo nero su bianco dalla società di consulenza Deloitte in una ricerca sull’impatto dello “shock esogeno” prodotto dal contemporaneo crollo della domanda di mercato e della produzione industriale: la transizione del settore automobilistico verso la mobilità elettrica non è in discussione, ma la pandemia causerà un rallentamento degli investimenti delle Case. «Il passaggio dei Paesi più avanzati verso l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili – afferma il partner Giorgio Barbieri – è un processo irreversibile, ma la complessità della tecnologia legata allo sviluppo della mobilità elettrica richiede enormi investimenti pluriennali, oggi poco compatibili con la contrazione dei margini di profitto e la crisi di liquidità delle imprese. A questa possibile contrazione degli investimenti vanno aggiunti anche gli effetti dello slittamento del lancio di nuovi modelli elettrici, dovuti anche al rinvio dei principali eventi di settore».
Inoltre, il prezzo delle elettriche molto più elevato della media del mercato rappresenta un «aspetto rilevante in un contesto caratterizzato da crisi economica e incertezze reddituali» ed è quindi probabile «che molti potenziali acquirenti rinvieranno la decisione d’acquisto a tempi di maggiore sicurezza economica o che la scelta ricada su sistemi di alimentazione tradizionali, che stanno peraltro beneficiando del crollo del prezzo del petrolio». Dunque, dalla crisi usciranno vincenti le più popolari e convenienti auto a benzina e diesel. Per questo la Deloitte ritiene quindi “ragionevole” un allentamento dei vincoli ambientali per rimettere in moto le attività industriali. «Con il crollo delle vendite, non è immaginabile una penalizzazione dei modelli benzina o diesel che hanno maggior mercato», afferma Barbieri. «Inoltre, l’incertezza dell’effettiva ripartenza dei produttori asiatici di batterie e componenti elettrici potrebbe compromettere la supply-chain e la capacità produttiva dei veicoli elettrici in Europa». La conferma dei vincoli e delle relative sanzioni rischia dunque di infliggere «un ulteriore colpo alle finanze dei produttori, con conseguenze lungo la value-chain (breve-medio periodo) e in termini di investimenti futuri in innovazione e sviluppo (medio-lungo periodo) essenziali per l’evoluzione della mobilità elettrica, con possibili ripercussioni anche occupazionali e quindi sociali».
Un fatto è certo: per l’auto, già alle prese con una serie di difficoltà, peggior cigno nero non poteva apparire all’orizzonte.