Perché la Cina è la culla del mondo

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Perché la Cina è la culla del mondo

L’economia della condivisione ha trovato in Oriente il terreno ideale. E vale già il 10% del Pil cinese.

Cina culla del mondo: l’economia della condivisione ha trovato in Oriente il terreno ideale. E vale già il 10% del Pil cinese.

Nella Silicon Valley, quando un giovane imprenditore vuole promuovere la propria startup, il modo migliore è sostenere che punta a diventare la Uber dei camion, la Uber degli sciatori, la Uber dei succhi di frutta. In California sembra che si possa fare sharing economy su qualsiasi cosa, ma è in Cina che questo concetto è stato spinto fino alle sue massime potenzialità. In Cina non c’è solo Didi, la versione cinese di Uber, che ha cacciato l’originale dal Paese grazie ai suoi migliori agganci politici e a una strategia di espansione ancora più spregiudicata. Non ci sono solo compagnie come Xiaozhu e Tujia, che hanno imparato e perfezionato la lezione di Airbnb, tanto da rendere un tormento l’ingresso dell’originale nel mercato cinese. Non ci sono solo i milioni di biciclette di Mobike e Ofo. In Cina sharing economy significa condividere davvero di tutto: ombrelli, cavetti per l’iPhone, caricabatterie, palloni da basket.

In base all’ultimo report del World Economic Forum, il 64% della crescita dell’economia cinese deriva dalla sharing economy e l’intero settore, che valeva 230 miliardi di dollari nel 2015, è destinato a rappresentare il 10% del Pil cinese entro il 2020, grazie a una crescita annuale del 30%. Tanto per fare un confronto, nel 2015 la sharing economy giapponese valeva appena 11 miliardi di dollari, neanche il 5% di quella cinese, laddove il valore nominale del Pil giapponese è poco meno della metà di quello cinese. La differenza di attitudine dei due popoli verso i consumi condivisi non potrebbe essere più grande. Come ha detto l’imprenditore Andy Tian, fondatore di Asia Innovations Group, a proposito del boom cinese della sharing economy: «Solo da noi si poteva raggiungere questa apoteosi, perché una società in cui tutti condividono tutto, in fondo, è la realizzazione del sogno comunista».

L’atteggiamento dei giapponesi è diametralmente opposto. «L’ansia nei confronti della condivisione è il principale fattore che ostacola lo sviluppo della sharing economy», sostiene Yusuke Takada, dell’ufficio governativo incaricato di promuovere il settore. Poi ci sono le barriere sociali. Per Chika Tsunoda, fondatrice di Anytimes (una piattaforma che consente agli utenti di condividere le proprie competenze, dal giardinaggio al baby-sitting), il principale ostacolo è la convinzione delle donne giapponesi di dover fare tutto da sé. I giapponesi, secondo Tsunoda, temono che la piattaforma non fornisca l’alto livello di servizio a cui sono abituati. «I cinesi sono molto più disposti a provare qualcosa solo perché è nuovo», commenta Tian. «È un approccio superficiale, ma in molti casi può diventare il motore del progresso».

Superpotenza hi-tech

Grazie a questa propensione, la Cina è diventata in pochi anni una potenza tecnologica, in grado di competere in molti campi con gli innovatori americani, tanto che le sue ambizioni hi-tech hanno spinto l’amministrazione Usa di Donald Trump a scatenare una guerra commerciale globale. Centinaia di milioni di persone in Cina ora usano gli smartphone per fare acquisti online, pagare le bollette e investire i propri soldi, a volte in modi più avanzati rispetto agli americani. I robot servono la cena nei ristoranti, l’intelligenza artificiale corregge i compiti scolastici e le tecnologie di riconoscimento facciale aiutano a distribuire tutto, dagli ordini di pollo fritto alla carta igienica. Nel 2017, le startup cinesi hanno raccolto quasi la metà dei capitali investiti a livello globale per i sistemi d’intelligenza artificiale, secondo CB Insights. Entro il 2020, secondo le stime della società di ricerca tecnologica Idc, oltre il 30% della spesa mondiale per la robotica finirà in Cina.

Un volano per tutto il mondo

La digitalizzazione dell’economia cinese e lo sviluppo della sharing economy sono una buona notizia, per la Cina e per il mondo intero. «Oltre al crescente appetito per uno stile di vita più minimalista, i consumatori affermano che questi servizi basati sulla condivisione offrono prezzi migliori, un accesso più conveniente e una maggiore scelta sul mercato», afferma un recente rapporto di PricewaterhouseCoopers. In una società dove i consumi galoppano, renderli sempre più sostenibili è fondamentale per la salvaguardia del pianeta. Nel decennio dal 2007 al 2017, il valore aggregato dei consumi delle famiglie cinesi è passato dal 13% dei livelli americani al 34% e secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale arriverà al 74% entro il 2027. A quel punto la popolazione cinese, già urbanizzata al 57% nel 2017, sarà cittadina al 70-75%. Solo grazie ai formidabili ritmi di crescita della sharing economy e della digitalizzazione della società, sarà possibile divaricare la curva di crescita dei consumi di massa da quella dell’utilizzo delle risorse.

Non solo successi

Nel mondo della sharing economy cinese non ci sono solo storie di successo: è il caso di E Umbrella, la società che affitta ombrelli nelle stazioni ferroviarie e della metropolitana, alla modica cifra di 6 centesimi ogni mezz’ora, più 2 euro e 50 di caparra per disincentivare i furti. «Tutti in casa conserviamo un sacco di ombrelli, ma non sono mai a portata di mano quando ne abbiamo bisogno», ha fatto notare il fondatore Zhao Shuping al lancio del servizio. Nonostante l’idea fosse sicuramente utile e originale, non tutto è andato come previsto: in tre mesi di attività, quasi 300mila ombrelli mancano all’appello. Una grave perdita per la start-up, considerando il costo di ogni ombrello con Gps, stimato attorno ai 7,5 euro. Nonostante ciò, il fondatore non demorde e intende mettere a disposizione 3 milioni di ombrelli entro la fine dell’anno, in tutta la Cina. Prevedere una penale più alta per gli ombrelli non restituiti magari potrebbe essere d’aiuto.

I primi sospetti che in Cina si stesse gonfiando una bolla della sharing economy sono sorti l’anno scorso, quando hanno cominciato a circolare sui media internazionali le fotografie dei marciapiedi di Pechino completamente ingombri da montagne di biciclette colorate. Sono i mezzi messi in strada dalle app di bike sharing, che in pochi mesi hanno conquistato decine di milioni di utenti e centinaia di milioni di dollari in investimenti. Le due compagnie principali sono Ofo e Mobike, che grazie a un’app consentono di noleggiare biciclette a cifre ridicole, pochi centesimi di euro all’ora, e di lasciarle parcheggiate ovunque in giro per la città, tanto è tutto geolocalizzato. Le due startup rivali hanno raccolto circa 2 miliardi di dollari di investimenti solo nel 2017, ma nel frattempo diverse altre, da GoBee a BlueGogo, sono andate in bancarotta. Dopo la bolla delle biciclette condivise, si è gonfiata quella delle batterie portatili per smartphone: nei bar, ristoranti e stazioni una serie di startup come Xiaodian o Jiedian noleggiano per pochi spicci batterie portatili da usare e restituire. Poi sono arrivati gli ombrelli e i palloni.

Il vero business sono i dati

Gli analisti sostengono che il vero premio di questo tipo di business non sia il margine risicatissimo e spesso inesistente sul costo del noleggio, ma l’appropriazione dei dati che si possono ottenere sulle abitudini di utilizzo degli utenti. Dietro al successo di Mobike, non a caso, pedala Tencent, la società dei messaggini WeChat che l’anno scorso ha tagliato il traguardo della Top Five dei marchi più di valore con Google, Apple, Amazon e Microsoft, mentre dietro alla rivale Ofo sprinta l’onnipresente Alibaba. Sono questi i due giganti in pole position, che si stanno accaparrando gli astri nascenti della sharing economy locale e quindi anche i dati creati dal crescente mercato di consumatori di massa, abilitato dalla digitalizzazione.

La concentrazione di tanti dati in poche mani da un lato può portare qualche comodità in più ai consumatori, ma è anche destinata a creare un immenso potere di oligopolio. L’anno scorso la sharing economy cinese ha coinvolto 700 milioni di persone e il governo di Pechino sta cominciando a porsi qualche problema in proposito, come dimostra una recente nota del ministero dell’Informazione, che insiste sulla necessità d’introdurre nuove politiche di accesso al mercato, sull’attuazione di un sistema equo di revisione della concorrenza e sul serio trattamento delle pratiche commerciali fraudolente. Nella nota si affronta anche il problema della fuga di dati, raccomandando la supervisione dei comportamenti delle piattaforme di raccolta, conservazione, utilizzo, elaborazione e trasferimento delle informazioni personali, che “va rafforzata”. La sharing economy cinese sta diventando maggiorenne.

​Giornalista, scrive di temi economici, d'innovazione tecnologica, energia e ambiente per diverse testate, fra cui il Corriere della Sera, il Sole 24 Ore e il Quotidiano Nazionale. Invidia i colleghi che riescono a star dietro a Twitter.