Automotive: i vantaggi dell’economia circolare
Tutti noi conosciamo il termine di obsolescenza programmata, ovvero una progettazione finalizzata a far durare un dispositivo soltanto per un certo numero di anni, oppure di operaz
L’umanità, di fronte all’intelligenza artificiale sembra dividersi in Consu-vittime inconsapevoli e ultra-umani illuminati. Chiamiamola co-evoluzione della condivisione
Tra noi e la tecnologia è da sempre in atto una co-evoluzione: evolvendoci, essa si evolve e ci fa evolvere. Per gran parte della storia dell’umanità, lo sviluppo tecnologico ha avuto un andamento di crescita tale per cui un individuo poteva nascere e morire senza percepire alcun progresso dirompente. Oggi invece – lo sappiamo – non è più così. Abbiamo assistito (e continuiamo ad assistere) a sviluppi tecnologici significativi, anche nell’arco di periodi molto brevi.
Se un tempo le innovazioni progredivano al passo dell’individuo, oggi l’evoluzione umana è decisamente più lenta rispetto a quella tecnologica. Secondo la legge di Moore, la complessità e la potenza di elaborazione dei microcircuiti raddoppia ogni 18 mesi: un andamento di crescita esponenziale (e non più lineare) che oramai si registra in ogni settore dell’ecosistema digitale. Ray Kurzweil, un importante esperto di intelligenza artificiale, ha affermato che «quando una qualsiasi tecnologia diventa una tecnologia informatica, comincia ad evolvere esponenzialmente», accelerando a tal punto da provocare un salto qualitativo: seguendo il tasso di crescita odierno, nel 21° secolo potremmo essere testimoni di 20.000 anni di progresso. La crescita potrebbe poi essere ancor più esplosiva per l’A.I., che –ipotizza Kurzweil – è verosimile possa persino raggiungere un punto di “singolarità”, auto-applicandosi programmi di ottimizzazione e superando la capacità degli esseri umani di comprendere il suo progresso.
Non si tratta di fantascienza, ma di una previsione plausibile, considerato che abbiamo impiegato circa mezzo secolo per adottare il telefono, ma meno di un decennio per il cellulare e il computer. Come reagiamo e reagiremo difronte a una tale complessità? Tendenzialmente, con indifferenza. Come si è detto, la nostra evoluzione non va più a pari passo con quella tecnologica: richiediamo alle innovazioni una raffinata complessità di processi e funzioni, ma pretendiamo da loro una lineare semplicità di utilizzo. Devono solo funzionare e realizzare le prestazioni che hanno promesso: noi non faremo altre domande circa i loro sistemi, i loro meccanismi, le loro strutture teoriche.
Se si è persa la curiosità, tuttavia non si è smarrita la meraviglia: di fronte alle tecnologie, non ci interroghiamo (o perlomeno non convertiamo le nostre domande in ricerche), ma di certo ci stupiamo. Con l’avvento della scienza e dei suoi strumenti tecnici, l’individuo ha smesso di ricorrere a entità misteriose per spiegare i fenomeni naturali e per padroneggiare la realtà. Questo «disincantamento del mondo» – come lo definì il filosofo Max Weber – non fu tanto dovuto a una crescente conoscenza generale, quanto alla coscienza che «se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza», cioè che «si può – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale».
Tutto vero, fino ad ora. Oggi l’umanità, di fronte all’intelligenza artificiale – la massima manifestazione dell’innovazione tecnologica – sembra dividersi in tre differenti categorie: i creatori del disincantamento; i disegnatori della semplicità; gli incantati (a loro volta suddivisi in consu-vittime inconsapevoli e ultra-umani illuminati).
Sono coloro i quali conoscono la tecnologia perché la creano. Con la scienza (non solo ora, ma da sempre) liberano l’individuo da spiegazioni irrazionali, dotandolo di strumenti tecnici, tecnologici e digitali per controllare, progettare e prevedere la realtà.
Sono coloro i quali rendono fruibile e consumabile l’innovazione tecnologica. L’utente richiede semplicità e intuitività di utilizzo, completezza di funzioni e resa dei prodotti – loro la realizzano.
Il software per il riconoscimento facciale dei primi diventa un hardware che, ad esempio, raggiunge una precisione tale da essere adatto alle transizioni finanziarie.
L’indifferenza teorica non è riprovevole: non può esserlo, considerata la complessità delle tecnologie a cui mi riferisco.
Ma gli incantati che non vogliono venire a conoscenza dei meccanismi tecnologici (né possono, se non per professione o passione), reagiscono in due modi differenti all’innovazione.
Coloro i quali consumano tecnologia inconsapevolmente, subendola passivamente e facendone un uso sterile. Non si interrogano né sui come né sui perché. Non mi riferisco solo ai consumatori di quelle tecnologie che, sulla base dell’analisi di dati, ricavano un pattern e individuano la mossa successiva dell’utente – facendolo passare da un’applicazione che stabilisce a quale gatto si assomiglia di più a una dove il riconoscimento facciale è usato per il funzionamento delle Animoji. Ma anche agli imprenditori che legittimamente si affidano alle prime due categorie per creare tecnologie senza grandi finalità o consapevolezze. Senza accordare un perché che non sia (ripeto, legittimamente) economico alla loro creazione.
Un esempio: non Spot, il cane-robot della Boston Dynamics che aiuterà le autorità italiane a monitorare le rovine dei siti archeologici, ma Lovot, un robot domestico progettato solo per “essere amato”.
Coloro i quali, pur ignorando il come, integrano i “perché” alla tecnologia, illuminandola con valori etici o culturali. E fanno emergere la struttura permanente che sta al di sotto di ogni novità, nonostante la crescita esponenzialmente.
Il superamento dei limiti della tecnologia, ci pone continuativamente davanti al limite umano: le questioni etiche sono diventate così rilevanti nell’A.I. che negli Stati Uniti i laureati in Filosofia assumono posizioni di leadership in grandi imprese di intelligenza artificiale. È uno dei modi per illuminare l’innovazione con l’umanità.
Solo un esempio tra tanti, per quanto riguarda il valore culturale: pensate alla scelta di importanti poli museali di creare doppi virtuali nel Metaverso per consentire a un pubblico globale di usufruire del loro patrimonio culturale. Ma anche – in piccolo – alla decisione di un professore di insegnare Storia dell’arte ai suoi alunni portandoli virtualmente al British Museum.
Insomma, se non conosciamo i perché abbiamo la possibilità di essere artigiani del come. E iniziare a guardare alla tecnologia come alla profondità del mare, che resta sempre immobile – se supportata dai nostri valori e dalla nostra umanità – per quanto agitata ne sia la superficie.