La lingua contemporanea è virale

In inglese le chiamano buzzword. Letteralmente il termine sta per “parole d’ordine” ma in senso traslato si usa per indicare lemmi, aggettivi, frasi diventati di moda, e di c
Più di un terzo delle attività di ascolto su Spotify sono incentrate sulle liste di brani musicali. Un meccanismo che sta modificando radicalmente modalità di diffusione, abitudini di ascolto e la modalità di produzione della musica.
Una volta erano le cassettine che si registravano per ascoltarle in auto o per fare colpo su qualcuno: i classici “mischioni” di canzoni varie su C-90 o su CD vergine che solo chi aveva più famigliarità con l’inglese chiamava “playlist” (o più frequentemente “compilation”). Ma quella è preistoria analogica. Nell’era digitale dello streaming le playlist sono diventate il fulcro intorno al quale ruota una parte sempre più rilevante del consumo di musica. Più di un terzo delle attività di ascolto su Spotify, per dare un metro di misura, sono incentrate sulle playlist. Un meccanismo che da semplice divertimento da appassionati fai-da-te si è trasformato in un aspetto ormai imprescindibile dell’ecosistema musicale contemporaneo. Qualcosa che sta modificando radicalmente sia le modalità di diffusione che le abitudini di ascolto, nonché – e qui sta forse la parte più interessante – le modalità di produzione della musica.
Lo streaming, sostanzialmente, vive di e sulle playlist. Appare sempre più evidente quanto l’immenso deposito di brani contenuto sulle diverse piattaforme non sia inteso come un jukebox virtuale in cui gli utenti vanno a cercare i dischi dei loro artisti preferiti, quanto il materiale grezzo con cui costruire un numero potenzialmente infinito di playlist. Così come infinite sono le tipologie delle stesse. Playlist su generi particolari, annate, luoghi geografici, momenti della giornata, stati d’animo, attività, viaggi e così via. Un catalogo sterminato di sonorizzazioni tailor-made.
A monte, la distinzione più importante è quella che ha a che fare con l’origine delle playlist, che possono essere curate dalle piattaforme, generate dagli utenti (o dai musicisti stessi) o assemblate dagli algoritmi. Recentemente è nata una ulteriore categoria, quella degli algo-torial, ovvero una collaborazione tra algoritmo e persone reali (la parte editoriale). La modalità di creazione non influisce sulle possibilità di successo – o più precisamente di viralità – di una playlist, che spesso sfociano nell’imponderabile. Ciò che conta è che per gli artisti, oggi, essere inseriti nella playlist “giusta” – qualunque essa sia: dai generici “discover weekly” a quelle ultra-specifiche tipo “musica per andare in bici sullo sfondo di un tramonto estivo” – può fare la differenza. Un po’ come pescare il biglietto vincente in una lotteria.
Un playlist placement azzeccato significa tanto per cominciare una monetizzazione immediata, derivante da milioni di ascolti, che sarebbe stata impossibile ottenere contando semplicemente sulla propria base di fan (a meno di non chiamarsi Taylor Swift, Ed Sheeran, Beatles o Queen). Ma si può tradurre anche in maggiore esposizione – soprattutto per artisti giovani o indipendenti – così come in possibilità di contratti con major discografiche, tour, collaborazioni (featuring) e, naturalmente, l’inserimento in altre playlist.
Inoltre, a dimostrazione che il consumo digitale si intreccia ormai inesorabilmente con quel che resta di quello analogico, va tenuto conto di come le classifiche discografiche prendano in considerazione negli ultimi anni anche i passaggi streaming, e le stesse radio – che non hanno più la centralità di un tempo nel determinare le fortune di una canzone ma restano comunque importanti – costruiscono sempre più la loro programmazione musicale con un occhio di riguardo nei confronti di ciò che le playlist mettono in risalto. Una sorta di circolo vizioso che non fa altro che amplificare il potere del meccanismo in oggetto.
Per riuscire a entrare – e soprattutto rimanere, perché i dati sui passaggi streaming per le piattaforme sono come quelli di vendita per le etichette discografiche: se hai pochi ascolti vieni messo alla porta – sempre più artisti modellano le loro proposte musicali cercando di adattarle ai diktat delle playlist. Le canzoni tendono a essere più corte, con un gancio melodico – il cosiddetto “hook” – subito all’inizio per evitare lo skip, si tende a evitare introduzioni, costruzioni progressive del brano o qualunque altro elemento possa distrarre da un ascolto superficiale. E chissà che anche i testi, prima o poi, non siano destinati a scomparire. Per fare un esempio con un classico assoluto della storia del rock: oggi Stairway to Heaven dei Led Zeppelin non avrebbe alcuna chance.
Allo stesso tempo, la necessità di conformarsi alle tendenze imposte dalle playlist genera una omogeneizzazione della musica, tagliando fuori le proposte più sperimentali e originali. Le playlist più ascoltate sono quelle che hanno a che fare con determinati mood o stati d’animo: ciò impone una estetica che taglia trasversalmente i generi musicali favorendo il dominio di un macro-genere semplicistico, spesso esclusivamente strumentale: beat morbidi e non troppo intrusivi, tempi medi, melodie tutte simili tra loro. Quella che un tempo si sarebbe definita musica “da ascensore” o da “sala d’aspetto”. Puro e innocuo sottofondo. Il successo di stili quali il “lo-fi” (prediletto dagli adolescenti mentre studiano) ne è un esempio.
Tutto ciò, inoltre, determina la sempre minor rilevanza del concetto di “album” come insieme strutturato di canzoni. A che pro, per un musicista, impegnarsi a pubblicare una dozzina di brani uniti da una qualche forma di narrazione, quando ciò che conta è la singola canzone che può trasformarsi nel jackpot vincente? Ecco, quindi, la tendenza sempre più diffusa a uscire sulle piattaforme con “singoli” o “EP” (raccolte di due o tre canzoni) per tastare il terreno e inseguire le playlist di tendenza del momento.
Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: l’ascoltatore. Si dice spesso che le playlist favoriscano la scoperta di nuova musica e stimolino la curiosità, ma a ben vedere è esattamente l’opposto. Delegando la ricerca all’algoritmo ci si accontenta di un ascolto passivo, randomico e che in genere – dato che le proposte sono tarate sugli user data – tendono a soddisfare e rafforzare i gusti degli utenti senza aprire orizzonti nuovi. Così che la personalizzazione delle esperienze di ascolto, in genere presentata come un valore irrinunciabile, nasconde semplicemente pigrizia e bisogno di confermare ciò che già si conosce e si apprezza. Anche in musica esiste l’effetto “bias”, proprio come nelle discussioni all’interno delle proprie bolle social.
In conclusione: da semplice feature messa a disposizione dalle piattaforme, la playlist è diventata il modello predominante di ascolto che sta riformulando i parametri della musica contemporanea. Con effetti non sempre positivi. Chi se lo sarebbe mai immaginato, quando nel ventesimo secolo facevamo le nostre compilation su cassetta?
Crediti foto: Marc Olivier Paquin/Unsplash