Il potere tossico del like

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Il potere tossico del like

Tra voglia di raccontarsi e desiderio di piacere le metriche social hanno reso quantificabili le reazioni. Così siamo arrivati a un’industria delle relazioni. Changes ne ha parlato con Gabriella Taddeo.

Nel suo saggio Quello che i soldi non possono comprare (Feltrinelli) il filosofo e docente ad Harvard Michael Sandel sosteneva che attribuire un valore numerico a certi beni immateriali li snatura. Li trasforma, cioè, in una merce, che, come tale, può essere valutata e pagata. La stessa degenerazione è toccata alle nostre relazioni, da quando le piattaforme le hanno rese gli indici del nostro capitale sociale. Una volta che le metriche dei social hanno reso “quantificabili” le reazioni a ciò che prima svolgevamo in modo inconsapevole, i numeri hanno ridotto la spontaneità dei nostri contenuti in modo da raccogliere un maggiore gradimento.

È questo, in parte, il potere tossico delle piattaforme: la capacità di orientare il nostro comportamento in base ai consensi altrui. «Prima la reputazione era vincolata al nostro ruolo sociale; oggi, alla visibilità. Acquisiamo prestigio non più perché diamo qualcosa alla comunità, ma al contrario per l’attenzione che captiamo», riassume Gabriella Taddeo, docente di Teoria e tecnica dei media digitali e Sociologia della comunicazione presso l’Università di Torino. La studiosa ha spiegato come i social ci inducano a postare sempre di più in cerca di consensi nel suo ultimo saggio: Social. L’industria delle relazioni (Einaudi).

Cosa intende per industria delle relazioni?
Intendo la spinta implicita in tutti i social a moltiplicare i contenuti che postiamo per aumentare le relazioni con altri utenti. Per il modo in cui sono fatti, cioè by design, i social progettano le relazioni tra gli utenti, attraverso sistemi che integrano elementi di interfaccia e logiche algoritmiche. Pensiamo ai likes su Facebook, ma anche a Patreon, OnlyFans o Substack dove, a essere venduto, più che un contenuto, è la dinamica sociale, emotiva e relazionale che esso riesce a innescare.In più questi sistemi sono incrementali, perché le piattaforme sono in grado non solo di “mappare” le relazioni esistenti, supportandole con vari strumenti e funzionalità, ma anche di “generarne” di nuove attraverso, per esempio, il suggerimento di nuovi amici, nuove persone da seguire o nuovi contenuti da vedere.

In parallelo con lo sviluppo di nuove relazioni, si scontrano però due dinamiche opposte. Da un lato c’è il desiderio di autorappresentarsi agli altri, attraverso l’esibizione ed estetizzazione della mia vita quotidiana e perfino del mio passato. Prendiamo un caso come Spotify wrapped: è un modello interattivo di rappresentazione del proprio “sé musicale” che permette di visualizzare per ciascun anno di ascolto i generi, le canzoni e gli artisti preferiti, la giornata musicale tipo. La condivisione del proprio sé musicale attraverso Wrapped è diventata un vero e proprio rito che ogni anno, a fine novembre, gli utenti Spotify eseguono per parlare di sé in forma originale, creativa e allo stesso tempo emozionale.

Dall’altro lato, però, da quando i social hanno instaurato un meccanismo di feedback, all’autorappresentazione si è aggiunto il meccanismo della competitività. La reazione ricevuta dall’esibizioni dei miei gusti e gesti mi mette a confronto sia con me stesso e le mie precedenti prestazioni, sia con gli altri. E il malessere emerge da confliggere di queste due dinamiche: l’aspirazione all‘autenticità e il desiderio di raccogliere sempre più consensi.

I social quindi ci hanno reso più ansiosi?
Avendo aggiunto al loro interno una serie di funzioni interattive, come le chat, i social generano una tensione continua in chi manda un messaggio perché il tempo di risposta dell’altro diventa esso stesso un giudizio implicito. E se con le e-mail diamo per scontato che qualcuno possa rispondere entro qualche giorno, quando una storia non raccoglie abbastanza like prima di scomparire o se un messaggio su IG non ottiene immediata risposta, ci sentiamo ignorati o feriti. Il tempo diventa un criterio di autovalutazione, che può deprimerci se non raccogliamo subito l’attenzione che ci aspettiamo.

Possiamo difendere la nostra autonomia di pensiero pur restando sui social?
Il primo consiglio è di non abbandonarsi al flusso dei contenuti che ci vengono proposti. Per esempio, quando Facebook ci chiede feedback sui suggerimenti forniti, proviamo a orientarlo verso le cose più lontane dai nostri gusti, per non rinchiuderci in una bolla di amici che la pensano come noi, anche se poi basta un piccolo dissenso e un conseguente calo dei like per andare in crisi.

Analogamente seguiamo su IG non le persone che dicono cose che ci trovano d’accordo con loro, ma l’opposto. Youtube sta sperimentando un algoritmo che ci suggerisce quali parti di un video saltare perché noiose. Ecco, combattiamolo guardando un video per intero e coltivando un nostro senso critico ed estetico. E disabilitiamo la spunta sui messaggi di whatapp per uscire dalla frenesia conseguente alla lettura di un messaggio. Siamo noi ad avere il potere di sagomare le proposte dei social con i nostri feedback. Per divergere basta fare una scelta. Siamo in una prigione che si scavalca con un link.

Oggi a produrre contenuti è anche l’AI. Come possiamo difenderci dalle fake news generate da sistemi informatici che ci condizionano in modo errato?
Purtroppo, le piattaforme stanno disinvestendo nella lotta alla disinformazione e nei Paesi in cui gli attivisti cercano di far conoscere verità alternative essi vengono bloccati con un meccanismo detto shadow banning: è una perdita di visibilità che viene effettuata, per esempio, con una cascata di notizie frivole che affossano quelle rilevanti. Ma il problema delle fake news non è che ci fanno cambiare idea in base a presupposti errati. Piuttosto, è che rafforzano le nostre idee preconcette, secondo il principio della selettività: in altre parole, quando gli individui si espongono ai media, ne percepiscono i messaggi e se li ricordano nel tempo in un modo che dipende da chi sono, dalla propria psicologia classe sociale e relazioni. Insomma, io seleziono solo le informazioni che concordano con le mie convinzioni e con la mia identità. Per questo, più che la disinformazione dovremmo temere la polarizzazione della società, l’estremismo che rende impossibile parlarsi; figuriamoci poi capirsi. I social certamente accentuano queste dinamiche, ma noi non dobbiamo “aiutarli” usandoli come motori di ricerca per ottenere informazioni. Le notizie vanno cercate altrove, mentre su quello che i social ci presentano, occorre affidarsi a un rigoroso, benché faticoso, fact checking.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​