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Entro il 2025 la metà degli incassi dei film sarà fatta con la distribuzione delle piattaforme in streaming. Addio alla magia del grande schermo?
In Italia l’industry cinematografica è attiva al momento su circa 900 produzioni. Ma solo il 35% di esse è destinato alla sala cinematografica, il resto è per le piattaforme in streaming e per la tv. Questo semplice dato già è sufficiente per spiegare il cambiamento in atto e il destino, purtroppo segnato, di tante sale cinema in Italia. E il Covid c’entra fino a un certo punto.
Tra il 2000 e il 2014, ad esempio, già avevano chiuso 1.083 schermi, scendendo a quota 3.914. Il circuito complessivo era poi calato a 3.600 schermi a inizio 2020. Ora, dopo la pandemia, siamo a 3.100. Il luogo-cinema, allora, è destinato a morire? Parlando con analisti del comparto e addetti ai lavori la risposta è unanime: no.
Tutte le previsioni, infatti, mostrano una industria internazionale del cinema dove il modello di business, a tendere, avrà anni 2024 e 2025 con il 50% degli incassi ancora assicurato dalle sale, e il 50% dalle piattaforme di streaming. Solo le sale, infatti, consentono alle major di coprire i costi dei film ad alto budget, da 3-400 milioni di dollari, film che altrimenti perderebbero soldi con una distribuzione esclusivamente in streaming (Disney e Warner lo hanno sperimentato sulla propria pelle durante la pandemia).
Il tracollo delle presenze in sala, peraltro, è un fenomeno tutto italiano: nel passaggio dal 2019 ai primi quattro mesi del 2022, infatti, Uk ha recuperato l’81% di presenze, la Spagna il 64%, la Francia il 62%, la Germania il 50%, mentre l’Italia è fanalino di coda con appena il 39%. Nel 2019 i biglietti venduti al cinema nella Penisola erano stati 97,6 milioni, nel 2020 giù a 28,1 milioni causa Covid, ma nel 2021 ancora peggio, 24,8 milioni. Come mai? Possiamo individuare almeno tre cause: la qualità dei film italiani, il profilo anagrafico del pubblico, l’aggiornamento delle sale.
Il primo fattore, e il più importante, lo certifica una indagine di ITmedia Consulting: la produzione di film locali ha meno appeal rispetto a quella, ad esempio, francese o spagnola. I film italiani sono poco ambiziosi, ideologici, destinati a un target che forse non esiste più. Tanto per dire, solo sei pellicole tricolori uscite in sala tra il 1° gennaio e il 30 giugno 2022 hanno superato il milione di euro al botteghino: i Me contro te, con 3,5 milioni, seguiti da Pio e Amedeo con “Belli ciao” (tre milioni), e poi “Ennio”, l’omaggio di Giuseppe Tornatore a Ennio Morricone (2,5 milioni di euro), “Corro da te”, con Pierfrancesco Favino e Miriam Leone (2,4 milioni),“Il sesso degli angeli” di Leonardo Pieraccioni (1,5 mln), e, infine “Nostalgia” di Mario Martone a 1,2 milioni di euro.
Per il resto, robetta da poche centinaia di migliaia di euro di box office. Perfino “C’era una volta il crimine” di Massimiliano Bruno si è fermato a 513 mila euro, mentre la pellicola “L’ombra del giorno” di Giuseppe Piccioni non è andata oltre i 321 mila euro, con “Esterno Notte” di Marco Bellocchio a 460 mila euro. Il problema c’è da anni. E non è un caso che la Francia, con una popolazione di 67 milioni di abitanti paragonabili ai 60 milioni dell’Italia, avesse circa 200 milioni di biglietti venduti nel 2019, contro la metà della Penisola.
Commenta Giuseppe Saccà, produttore e ad di 302 Original content e cofondatore di Pepito produzioni: «Sappiamo che la pellicola oggi può essere fruita in diverse modalità, ma in assenza di sale non sarà mai la stessa cosa perché, così come libro e libreria sono solidali l’uno con l’altra, non a caso, e forse ancor di più, la parola cinema indica sia l’industria, sia un’arte ma, soprattutto, un luogo. Noi dobbiamo essere capaci di pensare a prodotti che non siano tautologici o egoriferiti. E così, come un best-seller muove le acque delle librerie, mi piacerebbe che buoni prodotti cinematografici autoctoni stimolassero l’emulazione per divenire motore della rinascita del nostro cinema che, ricordiamolo, è stato tra i più grandi».
Il secondo fattore per spiegare il tracollo delle presenze è la composizione anagrafica del pubblico che va in sala in Italia: 23% over 60 anni, 15% nella fascia 50-59 anni, 17% nei 35-49 anni, 11% tra i 25 e i 34 anni, il 19% tra i 15-24 anni. Il 55% del pubblico cinematografico è quindi composto da un segmento adulto. E i più maturi sono sia gli ultimi a tornare in sala per timori ancora legati alla pandemia, sia quelli più colpiti dal processo di chiusure delle sale cinematografiche nei centri cittadini, essendo poco amanti dei cinema all’interno dei centri commerciali.
Il terzo fattore sono le sale cinematografiche in sé. Le tecnologie digitali consentono di avere all’interno delle proprie abitazioni degli impianti video e audio di livello a costi accessibili. Quindi le aspettative nei confronti delle sale aumentano costantemente. Si ricerca una “esperienza immersiva”, “la magia”, “il senso dell’evento”, “la condivisione con gli altri”. E in questo senso le sale hanno fatto troppo poco: nei centri cittadini si continuano ad aprire nuovi ristoranti (nonostante si mangi benissimo pure a casa e ci siano già centinaia di altri ristoranti), mentre non si aprono mai nuove sale, né si rinnovano radicalmente. O restano come sono, polverose, senza idee, meri contenitori di film portati da altri, e con la vecchia offerta film+popcorn+Coca-Cola, oppure chiudono. A Milano, per fare un esempio, la centralissima corso Vittorio Emanuele era la via dei cinema. Ora, con lo stop dell’Arlecchino, rimane solo l’Odeon dimezzato (l’altra metà diventerà un negozio di abbigliamento).
Ci si interroga sul senso di sale aperte sette giorni su sette e per tante ore al giorno, come se fossero ancora l’unico canale di distribuzione dei film, con spettacoli pomeridiani costantemente deserti, quasi che il cinema sia ancora considerato una sorta di presidio con una funzione sociale che invece non ha più. All’estero è quasi normale avere sale con schermi Imax, sistemi audio di ultimissima generazione, poltrone reclinabili e comodissime dove cenare, magari con chef stellati, durante la proiezione: in Italia rimane una assoluta eccezione.
E se la gente non va al cinema, non ci si deve attaccare alla pigrizia e alle abitudini post Covid: gli stadi, i concerti, i teatri, gli autodromi, i palazzetti si sono subito riempiti come prima della pandemia. Vince il concetto di live, unico, irripetibile. Al cinema è diverso, si proietta qualcosa di registrato e ripetibile: e al momento vince solo l’evento, mentre il filmetto d’autore fatica, il rito collettivo cultural-politico fa sempre meno breccia, ce lo guardiamo a casa in piattaforma, tranquilli e in silenzio.
Come spiega Andrea Olcese, chief creative officer di MediaLeisure Group di Dubai, «il cinema è un rito collettivo dove ridere insieme o emozionarsi di fronte a Star Wars. L’Italia, per scelta, ha perso il treno degli effetti speciali e ha voluto restare agganciata alla commedia, al neorealismo, al film d’autore con budget miseri. Però in Italia è venuta meno la professione di soggettista, geni alla Luciano Vincenzoni, persone che si inventavano storie meravigliose che poi venivano sceneggiate da altri magnifici professionisti, e che infine erano affidate a bravissimi registi. Ora fa tutto una persona, e i risultati si vedono. Il cinema deve essere commerciale, e se non vendi i biglietti non ha più senso da un punto di vista sociale».
Non ha invece alcun fondamento la polemica circa un tracollo di presenze dovuto al cambiamento del sistema delle finestre, ovvero alla riduzione dei giorni nei quali le sale hanno l’esclusiva assoluta sulla distribuzione di un film. Lo certifica l’indagine di ITmedia Consulting, secondo cui la «normativa sulle finestre non ha impatti sul ritorno in sala». Al momento il decreto Franceschini impone una esclusiva di 10 giorni per i cosiddetti film evento, che stanno in sala solo pochi giorni e poi vanno direttamente su piattaforma; di 60 giorni per i film a basso budget; di 90 giorni per i film italiani che hanno goduto di finanziamenti pubblici. Ma, ribadiscono da ITmedia Consulting, «in Italia il 90% del box office medio di un film si fa nei primi 21 giorni di distribuzione, e il 97% nei primi 35 giorni. Se si dovessero fare finestre troppo lunghe, si creerebbe un periodo di tempo, tra l’esclusiva della sala e la distribuzione su piattaforma, in cui per alcune settimane l’unico modo di vedere il film sarebbe la pirateria. Finendo quindi per incentivare la pirateria, invece di proteggere il film stesso». Perciò, conclude la ricerca, «la riduzione delle finestre di esclusiva per le sale sarà una tendenza che continuerà anche in futuro».