Cosa c’è dietro la crisi di Netflix

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Cosa c’è dietro la crisi di Netflix

Il flop della sesta stagione di Black Mirror è lo specchio del declino della piattaforma. Forse è arrivato il momento di pensare i prodotti cinematografici in modo diverso?

La sesta stagione di Black Mirror, una delle punte di diamante del catalogo Netflix, è stata accolta dal pubblico in modo che definire “perplesso” sarebbe un eufemismo. Nei vari forum on line di appassionati di serie tv i nuovi episodi della creatura dello sceneggiatore e produttore Charlie Brooker – considerata negli anni scorsi una delle più geniali, profonde e per molti aspetti inquietanti riflessioni in forma di fiction sui possibili futuri distopici che l’abuso della tecnologia può riservarci – è stata letteralmente massacrata. Una vera e propria shitstorm, imputabile forse al cambio di rotta della serie, ora più tendente al fantastico e al surreale e molto meno – per l’appunto – al tecnologico e al distopico. Un’accoglienza che Black Mirror non aveva mai avuto prima, e che se può essere derubricata a semplice incidente di percorso per il suo creatore Brooker (capita, soprattutto dopo così tante stagioni) suona invece come l’ennesimo sinistro campanello di allarme per la piattaforma che la ospita. In un certo senso, Netflix è da quasi due anni dentro il suo personale episodio di Black Mirror. Uno di quelli iniziali e più spaventosi, però.

Fuga e ritorno di abbonati (con lo sconto)

Partiamo dai numeri, che sono sempre un ottimo indicatore, anche se forse non raccontano tutta la verità. Nel corso del 2022, annus horribilis in decade (e mezza) fin lì trionfale, la piattaforma ha perso un milione e duecentomila abbonati nei primi otto mesi. A fronte dei 220 milioni di abbonati in tutto il mondo può sembrare poco, ma è la prima volta dal 2007 – quando Netflix lanciò il servizio di streaming, abbandonando quello della consegna casalinga di DVD – che nel saldo appare il segno “-“.
Successivamente la compagnia è riuscita a contenere le perdite. In che modo? Cambiando modello di business dopo la fine della condivisione delle password partita a maggio. Il modello, che ha esordito in Usa e Uk, è quello del paid sharing che si basa su abbonamenti con la pubblicità che costano meno alle persone, ma fanno incassare di più Netflix. La strategia sembra funzionare: nel secondo trimestre 2023 i ricavi di Netflix sono cresciuti di un 2,9% rispetto al 2022. C’è ottimismo anche sull’ultimo trimestre 2023 quando gli effetti della raccolta pubblicitaria dovrebbero stabilizzare i ricavi.

Quali sono le spiegazioni della prima, improvvisa inversione di tendenza che arriva dopo un quindicennio di successo crescente, nel quale per un certo periodo la N rossa con il suo “tu-dun!” rimbombante (protagonista di uno spot molto carino) è stata nella mente dei consumatori di film, serie tv e documentari l’icona assoluta dello streaming? Cominciamo dalle risposte più banali (ma, disgraziatamente, tutte realistiche). La prima: Netflix è mediamente più caro degli altri servizi di streaming e non è un caso che la leva del prezzo sia stata la prima mossa per invertire la rotta. La seconda: gli altri servizi di streaming, per l’appunto.
Se nel 2015 Netflix agiva in un regime di quasi-monopolio (dell’immaginario, se non proprio economico), sinonimo di un modello di business e di intrattenimento da lei inventato, nel corso degli ultimi anni si sono aggiunti altri attori. E non si tratta di competitor da nulla: parliamo di studios e di giganti delle tech e media company come Disney, Amazon, Apple, HULU e così via. Quasi tutti con offerte e moduli di abbonamento più agili ed economici.

Del resto, come era facilmente prevedibile, il mercato si è ormai saturato, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti (meno in Asia e Africa, che infatti in questo momento tengono su la bilancia riguardo ai nuovi clienti). Il boom dello streaming nel biennio 2020-21, dovuto al COVID e ai vari lockdown e del quale sicuramente Netflix ha beneficiato più di tutti, ha rappresentato una accelerazione epocale che paradossalmente rende oggi problematica una crescita ulteriore. Per ovvie ragioni numeriche, ma anche piscologiche (le maratone sul divano a guardare le serie tv in modalità binge-watching ci ricordano un po’ troppo un periodo che tutti vorremmo dimenticare). In questo contesto, non aiuta certo la decisione di Netflix di impedire l’utilizzo degli account condivisi tra amici che non abitano nella stessa casa. Decisione per ora solo minacciata e testata occasionalmente, ma che potrebbe essere realtà a breve. E l’introduzione di una nuova modalità di abbonamento più economica ma legata alla presenza di pubblicità (sul modello degli abbonamenti base delle piattaforme di streaming musicale come Spotify) non sembra una risposta particolarmente efficace, anche perché nega uno dei caposaldi della filosofia dello “streaming entertainment” lanciata proprio da Netflix: niente spot.

Ma ci sono anche altri fattori, meno legati a numeri e percentuali e invece attinenti all’offerta e alla sua qualità, concetto naturalmente vago ma che non si può non prendere in considerazione. Netflix ha il record di serie tv abbandonate dopo poche puntate, così come è inquietantemente alto il numero di serie tv, prodotte in proprio o comprate da terzi, che non vengono rinnovate fermandosi a una o due stagioni. Certamente sono sufficienti due blockbuster (per usare una terminologia da cinema “analogico”) come Stranger Things o Wednesday per tappare le falle, ma per quanto ancora possono bastare? E soprattutto: ne arriveranno altri? Se si guarda agli investimenti dichiarati da Netflix rispetto alla produzione di contenuti “nativi” qualche dubbio viene. Contemporaneamente, pezzi pregiati del catalogo sono passati di proprietà, reclamati proprio da quei concorrenti (Disney su tutti) cui si faceva cenno prima.

Un modello ancora vincente?

La vera domanda, al di là delle considerazioni economiche, è: quello di Netflix, o dello streaming in generale, è ancora un modello vincente? Oppure, riformulando la domanda in una tonalità più socio-filosofica: è ancora in grado di nutrire nel modo adeguato ai tempi il bisogno di immaginario delle persone? Se il target è quello dei giovani e giovanissimi (dalla generazione Z in giù, e quindi il potenziale pubblico di domani) la risposta forse è no. I teenager il loro binge watching lo vivono su Youtube o sulle piattaforme di gaming – e tra poco, chissà, nel Metaverso – privilegiando i contesti interattivi da “user generated content”. Le saghe infinite della serialità così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quindici anni non hanno lo stesso potere attrattivo, e probabilmente il formato e il sistema dello streaming appariranno ai teenager del futuro prossimo come un polveroso residuato di altre epoche. Proprio come la tv via cavo quando è arrivato lo streaming. Un cambiamento che in realtà è molto più ampio e radicale – riguarda il modo di narrare il mondo, non solo di diffondere intrattenimento – ma comunque ineludibile.

Ne Il sol dell’avvenire, l’ultimo film di Nanni Moretti, c’è una scena esilarante. È quando il regista, disperatamente in cerca di finanziatori, incontra dei giovani e rampantissimi executive di Netflix. Dopo aver ripetuto per cinque volte che il marchio è presente “in ben 190 paesi”, chiedono al povero e incredulo Nanni dove sia, nel suo film, il momento “what the fuck?”. Ecco, se la storia di Netflix fosse un film, il momento “what the fuck?” probabilmente sarebbe questo.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​