C’è bisogno di una slow-sharing

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C’è bisogno di una slow-sharing

Dopo gli anni della ricerca ossessiva di scalabilità, profitti e quotazioni veloci, l’economia della condivisione si converte a un tempo lento e si concentra su uno schema nuovo ispirato al modello cooperativo.

La notizia della morte della sharing economy è fortemente esagerata. È invece molto più probabile che sia finita quella che abbiamo conosciuto fino ad ora. E quali saranno i paradigmi e le regole di questa sua seconda vita? E, soprattutto, da cosa è influenzata questa sua ormai probabile evoluzione?

TRE PROMESSE

I servizi di sharing sono ancora diffusi e popolari, ma soprattutto sono in espansione e generativi di ricavi – per gli utili serve un capitolo a parte… – dato che le previsioni del giro d’affari del 2025 è di circa 335 miliardi di dollari.
Un bel salto, se si considera che nel 2014 erano 15 miliardi, e che si tratta di modelli di business molto giovani, come quelli di Airbnb e Uber, cioè nati tra il 2008 e il 2012. Rivediamo però quali erano le promesse di questa sfornata di piattaforme dell’economia digitale. A chi vi accedeva per lavorarci promettevano di farlo quanto e come si voleva; ovvero di decidere liberamente quante risorse impegnare, che fossero ore lavorate per guidare un taxi o consegnare hamburger, o giorni in cui si mette a disposizione il proprio appartamento al mare. A chi le ha inventate prometteva poi la possibilità di raggiungere l’Olimpo del capitalismo davvero con poco, e molto alla svelta. È emblematica la scena di pochi mesi fa, era il 10 dicembre 2020, in cui il Ceo Brian Chesky intervistato da Bloomberg assiste in diretta al raddoppio del valore del titolo della sua Airbnb nel giorno della quotazione. Per intenderci, è la solita vecchia epica della start up che raggiunge ricavi stellari, partendo da un’app fatta con pochi dollari, tra amici o studenti di Stanford, in un garage che poi è diventato un mito d’oggi, e che Roland Barthes avrebbe sicuramente accomodato in un libro sulla cultura di massa. 

LE RAGIONI CHE CAMBIANO

E i servizi di sharing cosa invece promettevano all’economia in generale? Prima di tentare una risposta è forse bene capire le ragioni ed i presupposti che hanno dato vita al fenomeno. Potremmo riassumere in due il numero degli ingredienti che ha fertilizzato l’humus della sharing economy: la/o le varie crisi degli ultimi quindici anni, e lo sviluppo tecnologico. Due fattori ancora presenti, anzi, più forti di prima, considerato che il Covid-19 ha da una parte peggiorato le condizioni dell’economia globale – con disoccupazione e meno ricchezza prodotta e disponibile – e spinto verso un ennesimo ed accelerato utilizzo delle tecnologie digitali. Ci sarà, quindi, ancora più bisogno di ottimizzare risorse, condividere asset di proprietà e utilizzati solo parzialmente, e di “fare con poco” passando dalla proprietà all’affitto. Dunque, le premesse della nascita della sharing economy sono ancora tutte lì, più forti di prima e inalterate.

MENO CALIFORNIA PIÙ COOPERAZIONE

Ma in definitiva, qual era la promessa ideologica di fondo di tutto questo? Che le tecnologie avrebbero risolto crisi, povertà e disequilibri, dando la possibilità a ogni individuo di giocarsi la propria fiche: la promessa era un ribaltamento totale ed ambizioso del capitalismo. Anzi, un capovolgimento del capitalismo cor​porate, quello delle grandissime imprese. Era quindi il concepimento della massima arma possibile dell’uomo contro lo strapotere delle grandi corporation: il piccolo David se la gioca ad armi pari contro il grande Golia. “Ad ogni membro della virtual class è concessa l’opportunità di diventare un imprenditore hi-tech di successo.” Scrivevano Richard Barbrook ed Andy Cameron in Californian Ideology.

Ma questa idea che il web e le tecnologie avrebbero liberato le potenzialità di ogni individuo, rendendolo imprenditore autonomo e amministratore delegato di se stesso, con la sua app e nel suo gig-lavoro su piattaforma, è stata mantenuta solo in parte.
Era infatti un’ideologia californiana anti-corporate, che predicava un sogno accessibile con al centro il mito del “self”: lanciare un’idea, raccogliere capitali, diventare ricchi.
Ma gli imprenditori che davvero l’hanno incarnata sono pochissimi, ed hanno dato vita per lo più a sistemi monopolistici, molto lontani da un’idea di ricchezza e benessere diffusi. E i lavoratori che hanno considerato le piattaforme come seconda chance per mantenersi e rifarsi una vita, con poche regole e mettendo a disposizione i propri ritagli di tempo, si sono trovati governati e valutati da un algoritmo, a rappresentare il nuovo proletariato globale, con pochi diritti e pochissime garanzie.
L’idea di portare così in equilibrio le disuguaglianze economiche risolvendo le asimmetrie informative, cioè facendo incontrare perfettamente domanda ed offerta sul mercato attraverso la tecnologia, non ha portato buoni frutti. Soprattutto dove il governo dei pochi è stato sostituito dal governo dell’algoritmo. Ora, cosa resta e come si evolverà questo modello? È molto probabile, forse auspicabile, che saranno le nuove necessità e spinte portate dal Covid-19 a influenzarlo. Come i bisogni sempre più accentuati di organizzare autonomamente il lavororesponsabilizzare gli individui, e renderli parte attiva dell’impresa, anche attraverso la condivisione della proprietà. Ingredienti che sembrano molto più vicini al modello cooperativo, più che a quello californiano. Dove protagonista torna ad essere l’uomo, non più o non solo la tecnica.​

​Antonio Belloni è nato nel 1979. È Coordinatore del Centro Studi Imprese Territorio, consulente senior di direzione per Confartigianato Artser, e collabora con la casa editrice di saggistica Ayros. Scrive d'impresa e management su testate online e cartacee, ed ha pubblicato Esportare l'Italia. Virtù o necessità? (2012, Guerini Editori), Food Economy, l'Italia e le strade infinite del cibo tra società e consumi (2014, Marsilio) e Uberization, il potere globale della disintermediazione (2017, Egea).