Sul clima la nebbia dei media

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Sul clima la nebbia dei media

Dov’è la crisi climatica? Perché l’informazione mainstream che può influenzare o stimolare la riflessione nella pubblica opinione la racconta poco e male.

Perché la crisi climatica non è più di moda sui media? E poi, quando la si trova, perché quasi sempre c’è accanto qualche ombra di negazionismo climatico, più o meno esplicito, che la offusca? Il risultato è che la pubblica opinione non è particolarmente stimolata a riflettere su cause e impatti della crisi climatica, sulla sua gravità e sull’urgenza di agire in modo radicale per contrastarla. Come la scienza chiede di fare, inascoltata, da molto tempo. Ma i media mainstream non si scompongono. Come evidenziano gli studi di chi per mestiere li osserva, quei media, e analizza se, quando, quanto, come danno spazio alla crisi climatica.

In Italia il riferimento in questo campo è l’Osservatorio di Pavia, un istituto di ricerca indipendente sui media che ha come obiettivo la salvaguardia del pluralismo sociale, culturale e politico attraverso l’elaborazione di metodologie innovative di ricerca e analisi. Da qualche anno l’Osservatorio ha iniziato, lui sì, a martellare e cioè a indagare sull’informazione sulla crisi climatica offerta dai media mainstream.
Prendiamo l’ultimo report annuale curato dall’Osservatorio per Greenpeace, che ha analizzato l’informazione sul clima in Italia nel 2023, un anno tra l’altro classificato come il più caldo di sempre (in attesa, s’intende, che sia superato dal 2024, come l’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha annunciato alla COP29) e nel quale l’Italia è stata colpita duramente da eventi estremi (alluvioni, temperature estive record). Il report ha analizzato i maggiori quotidiani e telegiornali nazionali, insieme alle testate giornalistiche più seguite su Instagram.

Senza entrare troppo nei dettagli (basti dire che solo un quotidiano sui cinque analizzati ha raggiunto la sufficienza, secondo il ranking stilato da Greenpeace in base ai dati dell’Osservatorio, mentre gli altri navigano tra l’insufficienza grave e gravissima), al di là di un leggero aumento in termini assoluti – rispetto al rapporto dell’anno precedente – di articoli e spazi televisivi dedicati alla crisi climatica (le percentuali restano poca cosa), nei quali comunque essa viene assai più spesso solo citata che posta al centro della narrazione, è il quadro generale che preoccupa.

Di crisi climatica, infatti, si parla più che altro quando capitano disastri. O quando si rinnova il rito della COP. Per il resto, rimane sottotraccia, insomma quasi scompare. Chi parla di crisi climatica sui media mainstream, poi, sono soprattutto i politici: i veri esperti, il mondo della scienza e delle associazioni ambientaliste, vengono dopo, soprattutto sui quotidiani dove è molto presente anche il mondo delle aziende. Sarà un caso ma il tema cruciale e incandescente del greenwashing, sui grandi media, praticamente non è pervenuto. Quanto alle cause e ai principali responsabili della crisi climatica, molto di rado vengono posti sotto la lente. E alla fine si scopre che ad aver fatto segnare un aumento ben più marcato, rispetto a quello di articoli e passaggi televisivi sulla crisi climatica, sono invece sui quotidiani le pubblicità delle aziende dei settori più impattanti climaticamente (sono passate in un anno da 795 a 1.229): pubblicità dell’automotive, di compagnie crocieristiche e aeree, e su tutti del settore fossile. Per giunta, pubblicità che cercano di far passare il messaggio che queste aziende son parte della soluzione, mica responsabili del problema: uno scenario orwelliano.

L’aumento della narrativa di resistenza

Ma non basta. A completare il quadro c’è il fatto che a trovare sempre più spazio sui media mainstream sono quelle che il rapporto definisce narrative di resistenza. In parole povere, la voce di chi rema contro. Nei modi più vari: chi sposa – ancora oggi, ebbene sì – il negazionismo tout court, sostenendo che la crisi non c’è o comunque non è urgente o comunque non è causata da attività umane; chi minimizza gli impatti della crisi climatica; chi parla dei costi della transizione ecologica per ritardarla il più possibile, guardandosi bene dal parlare dei costi dell’inazione climatica; chi, ancora, fa melina tirando in ballo la produttività, la competitività, mettendole ovviamente prima del clima; chi spara sugli attivisti climatici (pardon, “eco-vandali” o, peggio, “eco-terroristi”); chi contesta persino che tra eventi estremi e crisi climatica vi sia relazione; e via farneticando.

In attesa del prossimo rapporto annuale, l’Osservatorio ha rilasciato un rapporto sul periodo maggio-agosto 2024 dove la musica in sostanza non cambia. E allora, siccome a pensar male, come diceva quell’altro, si fa peccato ma spesso ci s’azzecca, una domanda s’impone: non sarà che i media mainstream trattano la crisi climatica in questo modo perché subiscono l’influenza delle industrie più inquinanti, anche in termini di investimenti pubblicitari? Del resto nell’introduzione al rapporto Greenpeace lo dice esplicitamente: bisogna liberare i media (oltre che la politica, ma questa è un’altra storia) dai condizionamenti dell’industria dei combustibili fossili. Perché la realtà è che a oggi i media quando parlano di crisi climatica infarciscono troppo spesso la loro narrazione di dubbi, di “ma”, “forse”, “chissà”, addirittura di “non è provato”, nonostante la scienza del clima abbia ormai seppellito da tempo ogni dubbio sotto una montagna di studi, analisi, dati, evidenze incontrovertibili.

Ecco allora che si spiegano iniziative come Stampa libera per il clima, a cui aderiscono più di una ventina di testate in Italia che si sono impegnate appunto a “liberarsi” dai finanziamenti delle aziende fossili,e dai loro condizionamenti. D’ispirazione è stata la testata britannica The Guardian che annunciò anni fa, ricevendo fra gli altri anche l’applauso di Greta Thunberg, che non avrebbe più accettato le pubblicità delle compagnie Oil&Gas.

Oltre a queste iniziative, a indicare la strada da percorrere affinché la crisi climatica trovi lo spazio che assolutamente le è dovuto sui media e in generale nella narrazione dominante, sono stati in questi anni anche personaggi ed enti fra i più importanti al mondo, quando si parla di crisi climatica. IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change, il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici) nei suoi ultimi report – le cui evidenze sono utilizzate anche nelle aule dei tribunali dove vanno in scena sempre più di frequente le climate litigation, le cause climatiche – ha iniziato a parlare degli effetti della pubblicità dell’industria fossile sulla crisi climatica, che esercita ovviamente un’influenza sui comportamenti dei consumatori in merito ai prodotti di tale industria, e a suggerire che sarebbe opportuno provvedere a una regolamentazione di tale pubblicità. Ma ancora più chiaro nel giugno scorso è stato il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: ha invitato innanzitutto i Paesi del mondo a mettere al bando la pubblicità delle aziende fossili, facendo un paragone col tabacco, la cui pubblicità in molti Paesi è vietata perché è un prodotto che danneggia la salute. Poi ha invitato i media, e le aziende tecnologiche, a non accettare pubblicità sulle fossili.

Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​