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Il 2017 ha segnato la svolta per la disclosure delle informazioni di Corporate social responsibility. Così le aziende devono essere in grado di indicare quanto sono state capaci di integrare la responsabilità sociale nel bilancio economico.
Il 2017 ha segnato la svolta per la disclosure delle informazioni di Corporate social responsibility. Così le aziende devono essere in grado di indicare quanto sono state capaci di integrare la responsabilità sociale nel bilancio economico .
Il 2017 ha segnato la svolta nella direzione dell’integrated reporting. La data ufficiale è quella del 25 gennaio, quando è entrato in vigore il Decreto che attua in Italia la Direttiva europea sulle informazioni non finanziarie (Direttiva 95/2014). In sostanza, per le aziende è diventata obbligatoria la disclosure delle informazioni proprie della corporate social responsibility, ossia le attività e i risultati in campo sociale, ambientale e di governance (i cosiddetti fattori Esg). Ovvero, di tutte quelle variabili ritenute capaci, una volta trasformate in numeri contabili, di indicare quanto un’azienda è stata capace di integrare la sostenibilità e la responsabilità sociale nel proprio Dna. Come ha sottolineato Eurosif, l’organizzazione che rappresenta i forum della finanza sostenibile dei Paesi europei, in occasione dell’approvazione della norma da parte del Parlamento di Strasburgo, si tratta di «un’importante pietra miliare nel processo dell’Europa verso una maggiore trasparenza societaria». Inoltre, il passo avanti è notevole rispetto all’approccio “comply or explain” (ossia, “rispetta le indicazioni oppure spiega perché non lo fai”). Qui si parla di obblighi, di responsabilità manageriali e di multe assai salate (su questo l’Italia ha picchiato più duro di molti altri Paesi).
L’iniziativa si è inserita in un più ampio percorso intrapreso dalla Ue sulla Csr. Un percorso che ha visto, nel 2014, anche il lancio di una consultazione pubblica, seguita, nel febbraio 2015, dallo svolgimento di un Forum multistakeholder continentale. Tuttavia, la discussione a Bruxelles, come ha raccontato in un’intervista Sergio Cofferati, parlamentare europeo tra i promotori dell’iniziativa, «è stata faticosa, perché c’erano grandissime resistenze soprattutto da parte di alcuni Paesi, più che in Parlamento dove invece gli elementi di convergenza, anche alla luce del lavoro già fatto sulla Csr, erano molto netti». Alcuni Paesi del Nord Europa, come la Germania o l’Inghilterra, non erano particolarmente interessati al provvedimento e hanno portato avanti resistenze specifiche su alcuni punti, in particolare sull’area di applicazione della direttiva, vale a dire sul numero di imprese coinvolte, uno dei punti di maggior dibattito. Dagli intenti inziali, il numero di imprese destinatarie del provvedimento si è così ridotto: dalle 18.000 società quotate e non quotate stimate nella proposta originaria alle circa 6.000 del testo finale (le quotate in via primaria).
La direttiva si applica infatti solo alle imprese indicate come “grandi imprese di pubblico interesse”, in particolare le imprese con più di 500 dipendenti che siano Public Interest Entities (per esempio, imprese quotate, banche e assicurazioni) e i gruppi di grandi dimensioni con più di 500 dipendenti, la cui impresa madre è un ente di interesse pubblico. I motivi di questa impostazione li ha spiegati, al momento di recepire la normativa in Italia, il ministero dell’Economia (Mef): da un lato, l’informazione non finanziaria è intesa come un tassello del sistema di incentivi di mercato e politici, studiato per ricompensare gli investimenti delle imprese nel cammino verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse; dall’altro, si vuole ridurre (vedi le conclusioni del Consiglio europeo del 24 e 25 marzo 2011) l’onere regolamentare e amministrativo che grava in particolare sulle piccole e medie imprese (Pmi).
Tuttavia, se la direttiva ha previsto un perimetro minimo, ha dato allo stesso tempo agli Stati membri la facoltà di procedere a una sua estensione nel caso in cui «sia funzionale e coerente con gli obiettivi che la divulgazione di informazioni non finanziarie intende perseguire e (ii) non costituisca un indebito onere amministrativo a carico delle società che sarebbero ricomprese nel più ampio ambito di applicazione».
In Italia il possibile ampliamento dell’ambito di applicazione si è però dovuto confrontare con un altro aspetto della normativa nazionale, ossia il divieto di gold plating, in virtù del quale «l’estensione dell’ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni può essere ammesso solo a seguito di dimostrate e comprovate esigenze». Il decreto di applicazione ha così optato per confermare l’ambito di applicazione minimo della Direttiva, ma prevedendo la possibilità di redigere su base volontaria dichiarazioni non finanziarie volontarie e conformi per tutte le società.
La direttiva in Italia è stata oggetto di ben due consultazioni pubbliche lanciate dal Mef che, alla luce del margine di discrezionalità lasciato dall’Europa su più di un aspetto, ha ritenuto opportuno procedere a una «preventiva assunzione di decisioni circa le scelte di fondo che connoteranno le future disposizioni legislative». La prima consultazione, della primavera 2016, ha voluto raccogliere valutazioni e commenti su alcuni punti nevralgici della normativa, come, appunto, l’individuazione dell’ambito di applicazione, l’identificazione di standard di rendicontazione, il controllo (verifica e/o audit), la collocazione dell’informativa non finanziaria.
Sulla base di questo primo confronto con gli stakeholder è stato redatto un testo, messo a sua volta in consultazione tra agosto e settembre 2016, in cui il Mef ha peraltro stabilito l’applicazione di sanzioni per gli amministratori che non danno corretta disclosure delle informazioni di carattere non finanziario. L’impianto sanzionatorio è stato poi rivisto e rafforzato dal Mef nella versione finale del Decreto, stabilendo una disciplina più articolata e stringente e individuando la Consob come amministratore competente per l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni. Si parla di centinaia di migliaia di euro, a carico dei responsabili aziendali e di coloro che sono tenuti a controllare (anche gli advisor esterni).
L’Italia è entrata tra i Paesi che hanno completato l’iter di trasposizione della Direttiva nella normativa nazionale, completato agli inizi di aprile dal 68% degli Stati membri interessati. Da quando Jacques Delors nel Libro Bianco del 1993 affrontò per la prima volta il tema della responsabilità sociale delle imprese, l’Unione europea ha fatto molto e oggi può candidarsi a diventare l’area leader della Csr a livello mondiale.