Se il design diventa umanitario

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Se il design diventa umanitario

La storia di Cédric Fettouche, designer e fondatore della Ong Humanitarian designers, che vuole costruire un ponte fra i due settori anche attraverso un corso di studi ad hoc.

«Il mio ultimo progetto a Lesbo, con Oxfam e ICRC (il comitato internazionale della Croce Rossa), è stato quello di realizzare una mappa del campo di accoglienza per migranti di Moria che mostrasse ai residenti i servizi offerti dalla struttura. Per una Ong il metodo tradizionale è un approccio top-down, senza integrare i fruitori finali del progetto nel suo processo di realizzazione. Ma credo che questo modo di fare sia sbagliato». Cédric Fettouche è un giovane che si occupa di design strategico , fondatore della Ong Humanitarian designers, che si propone di creare un ponte fra la sua professione e le Ong. L’organizzazione è nata a gennaio 2021 e vi hanno aderito, tramite la sua piattaforma online, già circa 120 designer fra studenti e professionisti. L’idea prende corpo proprio grazie ai tre anni di esperienza sul campo di Fettouche. Nel settembre scorso la Ong ha partecipato alla France Design Week con un’installazione e un ciclo di conferenze che inizia dalla domanda “come può il design supportare il settore umanitario?” per sviluppare un dibattito con le persone direttamente interessate, ma anche con scuole di design, professionisti, ong, istituzioni. Nel mentre, Humanitarian designers ha messo a punto un training online gratuito di 5 giorni per chi vuole avvicinarsi a un’esperienza di volontariato in una Ong e si propone come tramite per internship, progetti di tesi (in passato c’è stata una collaborazione con Design Makes Sense, che ne ha pubblicate alcune), e per spiegare quali sono le carriere e i posti di lavoro disponibili nel settore.

«Quando mi è stato dato l’incarico di realizzare la mappa, la prima cosa che ho fatto è stata concordare con Oxfam l’avvio di workshop con i rappresentanti di ogni comunità ospite del campo. Mi sono reso velocemente conto che nessuno di loro avrebbe capito una mappa con una visualizzazione stilizzata come quella delle metropolitane, perché quell’approccio e quella rappresentazione della topografia senza riferimenti geografici e distanze è prettamente occidentale. Ecco il ruolo di un designer all’interno di una Ngo: una figura di collegamento che aiuta a co-crea le soluzioni insieme ai destinatari effettivi dei progetti. La mappa per il campo di Moria è stata frutto di una discussione e di incontri collettivi, e il risultato è stato comprensibile a tutti e condiviso da tutti», continua Fettouche. Il più grande cambiamento che Humanitarian Designers vuole portare è l’approccio “bottom-up”, collaborativo e co-creativo.

​Nella sua esperienza con le Ong – da Oxfam a Sea-Eye – Fettouche dice di aver incontrato solo tre designer in tre anni fra le migliaia di volontari provenienti da facoltà come architettura, giornalismo, studi internazionali. «Eppure a scuola ci insegnano che il nostro è un lavoro empatico, che mette al centro l’essere umano». Idealmente, il collegamento con una Ong dovrebbe nascere spontaneo, come è successo nel campo dell’architettura, che oggi propone corsi universitari e master specializzati in Emergency Architecture. Ecco perché è importante partire dall’istruzione: «Ci piacerebbe collaborare con scuole di design e Ong per dar vita a un percorso di studi di design umanitario che aiuti a stimolare sinergie e spinte verso questo settore. Da un lato, facendo capire qual è il valore aggiunto di integrare nei propri team un designer per rispondere a sfide sociali e ambientali in continuo divenire; dall’altro, formando figure professionali già pronte. Al momento non c’è nessuna scuola di design che promuove o semplicemente presenta ai suoi studenti questo settore perché non ci sono collegamenti».

​Quando chiedo a Fettouche quanto siano consapevoli le Ong della necessità di integrare nei loro team una figura di questo tipo mi risponde citando lo schema della Design ladder, sviluppata dal Danish Design Center. Si compone di quattro gradini: il primo è il non design: il design è trascurabile o assente nello sviluppo di un prodotto o un servizio. Il secondo è il design come decorazione, usato quindi superficialmente, come abbellimento estetico. Il terzo è design come processo, ovvero integrato nelle fasi iniziali dello sviluppo. L’ultimo è design come strategia, che apre a una collaborazione fra tutte le parti in causa, influenza la visione aziendale e i suoi obiettivi di sviluppo. Le Ong si collocano ancora fra i primi gradini, anche se Fettouche nota una differenza fra le associazioni di cultura anglosassone o scandinava, per propria tradizione più aperte a implementare il design nei propri processi decisionali e creativi.

Nei prossimi mesi Fettouche sarà impegnato in un tirocinio alla Commissione Europea e si unirà al team del Nuovo Bauhaus europeo, un’iniziativa creativa e interdisciplinare che, attraverso workshop con cittadini e istituzioni, progetta futuri modi di vivere incrociando arte, cultura, inclusione sociale, scienza e tecnologia. «Lavorare per la Commissione Europea per me vuol dire fare un passo di lato rispetto al mio percorso nel campo umanitario. Eppure, da designer, credo che sia necessario andare al di là del nostro piccolo circuito, uscire dalla bolla, collaborare e conoscere altri settori. Un designer diventa sempre migliore quando si immerge in un’altra realtà. È così che si trovano le soluzioni». 

Giornalista, coordina i contenuti editoriali di How to Spend it, il mensile di lusso e lifestyle del Sole24Ore, edizione italiana del magazine del Financial Times. Scrive di sostenibilità e tecnologia, seguendo le loro ramificazioni nel design, nel food, nell'architettura, nella moda. Ha collaborato con le pagine di cultura e spettacolo de Il Giornale, il magazine della Treccani, Wired Italia, Linkiesta, EconomyUp, Polihub, l'incubatore di startup del Politecnico di Milano. È stata assistente di ricerca all'università IULM per il corso di Comunicazione Multimediale.