Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
A giudicare dagli scarsissimi, irritanti risultati con cui si è conclusa a novembre la COP27 di Sharm el-Sheikh, l'iniziativa non ha sortito gli effetti sperati. Ma è stata comunque importante per le nuove figure legali a difesa del clima.
È successo che circa un mese prima del meeting delle Nazioni Unite sul clima in Egitto, un gruppo di una trentina di avvocati e di organizzazioni ambientaliste di tutto il mondo ha inviato ai governi del pianeta una lettera aperta che diceva in sostanza due cose: primo, che agire sul clima è per i governi un obbligo di legge; secondo, che se i governi continueranno a non mettere in campo azioni adeguate per contrastare l’emergenza climatica, verranno portati in tribunale affinché siano le sentenze a costringerli a farlo.
Del resto, sta già accadendo. Queste stesse organizzazioni, infatti, sono già state protagoniste in giro per il mondo di un’ottantina di climate litigation, cioè di cause legate a questioni climatiche, con cui hanno messo i governi sul banco degli imputati. E spesso le sentenze hanno dato loro ragione.
In tale contesto, sta emergendo con un ruolo sempre più da protagonista la figura del climate lawyer, l’avvocato specializzato su leggi e temi climatici. Una figura ancora in fase di evoluzione, che ha iniziato a prendere forma solo di recente. «In Europa dal 2015 in poi, un po’ prima negli Stati Uniti, in sostanza da quando è aumentato il rischio di azione giudiziaria climatica», dice Esmeralda Colombo, avvocato, ricercatrice presso la Fondazione Euro-Mediterranea sui Cambiamenti Climatici, il focal point per l’Italia di IPCC (il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici).
Momento chiave in Europa è stata nel 2015 la prima sentenza sul caso Urgenda, in cui per la prima volta un tribunale ha intimato a uno Stato, l’Olanda, di fare di più per ridurre le emissioni di GHG (gas a effetto serra). Negli Usa, invece, un punto di svolta è stata nel 2007 la sentenza Massachusetts vs. EPA, che ha riconosciuto all’agenzia federale statunitense per la protezione dell’ambiente il potere di imporre limiti e regolamenti sulle emissioni di GHG.
I fattori che hanno portato alla ribalta i climate lawyers si possono dividere in due grandi ordini: «È stata una progressione – spiega Colombo – dovuta a spinte dall’alto e dal basso. Da una parte il legislatore, specie in Europa ma non solo, ha dato una grossa spinta perché ha visto i rischi collegati alla crisi climatica. Soprattutto in ambito finanziario. Dall’altra, dal 2018-19 ha molto influito il fenomeno dei climate strike: Greta e gli altri giovani attivisti climatici hanno fatto comprendere l’importanza di una mobilitazione sociale su questi temi, dandogli enorme visibilità. Io stessa da allora ho avuto un’interlocuzione molto più fitta con il mondo scientifico».
Sebbene ancora non pienamente definito, si può comunque provare almeno a tratteggiare l’identikit del climate lawyer. «Serve una dedicazione totale alla scienza, anche perché le categorie giuridiche si rinnovano confrontandosi con le emergenze scientifiche, ma non c’è un unico modo di intenderlo: c’è la ricerca, il policy making, il consulting, la litigation», afferma Colombo, che monitora il fenomeno delle climate litigation in Norvegia, dove ha vissuto, in qualità di membro del Peer Review Network del Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University di New York (dove è stata allieva di Michael Gerrard, fondatore del Center, che gestisce il Climate change Litigation database). «Inoltre – prosegue – occorre occuparsi non solo di clima ma anche di energia, biodiversità, limiti planetari, insomma di “sistema terra”. C’è molta interdisciplinarità, ma anche spazio per la specializzazione. Consiglio di specializzarsi in università con un focus sulla climate law, dedicandosi durante gli studi ad attività pratiche, magari partendo dal pro-bono. L’Italia potrebbe essere un terreno fertile per i climate lawyers, ma bisogna investire di più, valorizzare il diritto ambientale nelle università, creare maggiore sinergia col mondo degli studi legali e della consulenza. Nei prossimi anni vedo uno spazio di sviluppo collegato soprattutto a finanza ed energia: penso all’accesso alla finanza per le energie rinnovabili, alla diffusione delle comunità energetiche rinnovabili».
Le organizzazioni che utilizzano la leva giuridica, e in particolare il contenzioso legale, per far avanzare norme, regolamenti, politiche, insomma per spingere e in qualche caso provare a forzare la mano per ottenere un’azione più efficace nel contrasto alla crisi climatica, negli anni si sono moltiplicate. Un elenco ben lungi dall’essere esaustivo non può non comprendere ad esempio Client Earth, Earthjustice, Global Legal Action Network, Ecojustice, Lawyers for Climate Action, Lawyers for Climate Justice. In Italia, la Rete Legalità per il Clima, che sta seguendo la prima causa (“Giudizio universale“) intentata contro lo Stato italiano per inazione climatica.
In molte delle climate litigation di cui queste organizzazioni sono protagoniste, quella italiana compresa, ad acquisire sempre più importanza è il legame tra crisi climatica e diritti umani. A metterlo in evidenza è stato anche l’ultimo rapporto annuale sui trend globali nelle climate litigation prodotto dal Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment della London School of Economics, che al riguardo parla di “rights-based” climate litigation, basate cioè sulle norme legate ai diritti umani.
«Sebbene siano state spesso considerate come aspetti separati della sostenibilità, le questioni ambientali e climatiche da una parte, e quelle sociali e in particolare dei diritti umani dall’altra, sono profondamente collegate», dice Maria Pia Sacco, Senior Legal Advisor presso lo studio legale RP Legal & Tax, board member di Human Rights International Corner e officer del Business Human Rights Committee dell’International Bar Association (IBA), la più grande associazione al mondo di professionisti del diritto, che nel 2020 ha emesso un Climate Crisis Statement in cui fra le altre cose invita i suoi membri a sviluppare un approccio “climate conscious” alla professione. «In ambito giuridico, infatti – prosegue Sacco-, tali dimensioni stanno convergendo. E non solo a livello di climate litigation: lo abbiamo visto ad esempio con il riconoscimento, da parte delle Nazioni Unite, dell’accesso a un ambiente sano come un diritto umano. Del resto, la crisi climatica potenzialmente può impattare negativamente su quasi tutti i diritti umani».
Anche in Italia è stato compiuto di recente un passo significativo, con le modifiche che hanno introdotto la tutela dell’ambiente fra i principi fondamentali della nostra Costituzione. Mentre nelle Filippine la Commissione per i Diritti Umani, dopo un lavoro di inchiesta e ricerca durato anni, ha pubblicato nei mesi scorsi un report – subito salutato come una pietra miliare – in cui si dichiara senza mezzi termini che i cambiamenti climatici sono una questione legata ai diritti umani. Anzi, che sono la più grande sfida per i diritti umani nel XXI secolo.
«Riconoscere la complessità di queste tematiche – aggiunge Sacco – non significa negare la necessità di specializzarsi, perché certi aspetti tecnici richiedono il necessario approfondimento. Significa, invece, sviluppare una visione d’insieme, anche andando al di là del diritto cogente: bisogna cioè saper interpretare, e in un certo senso anticipare, l’evoluzione del quadro normativo». Influenzare il più possibile il quadro normativo è ad esempio l’obiettivo delle climate litigation cosiddette “sistemiche”, le più ambiziose. «La legge è fondamentale – conclude Sacco – per poter ottenere cambiamenti di scala, sistemici, come ad esempio quelli richiesti per affrontare la crisi climatica. Tuttavia, da sola non basta. Occorre combinare gli strumenti normativi, che restano al centro, con incentivi di mercato, meccanismi di auto-regolamentazione, leve reputazionali: lo “smart mix” di cui parlava il professor John Ruggie, “padre” dei Principi guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti umani».
In pochi anni le climate litigation si sono affermate come una delle più promettenti nuove frontiere dell’attivismo climatico. Ai climate lawyers si guarda come a una sorta di “sacerdoti” di questo strumento, coloro che dispongono della sapienza per utilizzarlo al meglio. Le aspettative, insomma, non potrebbero essere più elevate. Certo, non è un mestiere semplice. Anzi, può diventare molto rischioso. Basti per tutti il caso di Steven Donziger.
È l’avvocato statunitense che ha condotto e vinto una lunga e celeberrima battaglia legale contro una delle più potenti società dell’oil & gas al mondo, Chevron. Dopo la sentenza che l’aveva inchiodata alle sue responsabilità per il disastro ambientale provocato in Ecuador, Chevron non ha badato a spese per scatenare a sua volta una battaglia, anzi, una rappresaglia legale in grande stile contro Donziger, rendendogli la vita un inferno: molti al riguardo hanno parlato di SLAPP (acronimo di strategic lawsuit against public partecipation, una “querela temeraria”) e il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite ha parlato di processo equo negato, definendo illegali gli arresti domiciliari a cui Donziger è stato sottoposto per due anni.
Però, se si pensa a un climate lawyer, a uno che ha saputo affrontare e vincere sfide epocali, per giunta rischiando molto del suo per la tutela dei diritti umani e la salvaguardia dell’ambiente, e che ne sostiene altre in corso di altrettanto epocali, come il Trattato Internazionale di Non-Proliferazione delle fonti fossili, beh, il primo nome che viene in mente è proprio il suo.