In finanza è tassonomia mania

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In finanza è tassonomia mania

L'Unione europea potrebbe ritagliarsi un ruolo di leadership nella ricerca del massimo grado di omogeneità fra le varie regolamentazioni della sostenibilità.

Nel settembre del 2016, quando la Commissione europea annunciò l’intenzione di voler elaborare una strategia per il sostegno della finanza “verde”, si trattava non del primo in assoluto ma senza dubbio del più organico e quindi ambizioso tentativo al mondo di provare a definire una classificazione, o tassonomia, “green” dei settori e attività economici, come venne poi più precisamente definita nell’Action plan che sempre la Commissione di Bruxelles presentò a marzo del 2018.

I tempi del legislatore europeo sono però quelli che sono, anche giustamente. Per cui la tassonomia, che di quel Piano d’azione rappresenta il cuore, dopo vicissitudini a dir poco travagliate è entrata in vigore all’inizio del 2022 con l’approvazione definitiva dello EU Taxonomy Climate Delegated Act. Solo, però, per la parte che riguarda i primi due (mitigazione e adattamento alla crisi climatica) dei sei obiettivi ambientali definiti. Gli altri arriveranno. E poi toccherà alla cosiddetta tassonomia sociale, prevedibilmente ancora più complicata. Per tacere del fatto che, com’è arcinoto, sulla possibile introduzione del gas e dell’energia nucleare nella tassonomia s’è scatenata una rovente battaglia tutta politica, che potrebbe addirittura diventare uno scontro legale. E da più parti (una per tutte, il celebre e autorevolissimo Club di Roma) è stato chiaramente evidenziato che l’eventuale introduzione in tassonomia di questi settori farebbe definitivamente deragliare il progetto dal percorso che si era dichiarato dovesse essere science-based, ossia fondato su evidenze scientifiche.

L’Europa, dunque, rischia seriamente di perdere, se già non l’ha perso, il vantaggio iniziale che aveva quando cinque anni fa diede il via a questo ciclopico, meritevole, per certi versi visionario e persino “scomodo” progetto mirante in sostanza a mettere a norma la finanza sostenibile. Rischia di dar vita a una tassonomia non più considerata il “gold standard” a livello internazionale. Rischia di non essere più l’area leader nel mondo per la finanza sostenibile, che oggi è ormai mainstream nel mondo mentre nel 2016 non lo era.

Un mondo diverso

Da quel settembre 2016, insomma, molta acqua è passata sotto i ponti. E inevitabilmente, cambiando alla velocità della luce, oggi il mondo è molto diverso. C’è stata la pandemia. Si sono affermati ai quattro angoli del pianeta movimenti come Fridays For Future, partito tra l’altro proprio dall’Europa e in particolare dalla Svezia di Greta Thunberg, ed Extinction rebellion, nato in Inghilterra, che hanno messo severamente in discussione la capacità dei cosiddetti leader del mondo di essere realmente leader nel contrasto alla crisi climatica. La crisi climatica si è mostrata in tutta la sua virulenza in modo sempre più frequente e allarmante e ciò ha fatto aumentare esponenzialmente la consapevolezza di consumatori e investitori della necessità di fronteggiarla. Il movimento del fossil fuel divestment è diventato mainstream e la necessità di abbandonare il prima possibile le fonti fossili di energia, di gran lunga la prima causa del riscaldamento climatico, ha portato ad alleanze fra Paesi che si pongono questo obiettivo e ad iniziative come quella per un Trattato globale di non-proliferazione delle fonti fossili, sul modello di quello per le armi nucleari. Dopo anni di negazionismo climatico sotto la presidenza Trump, la presidenza Biden ha riportato gli Stati Uniti, almeno formalmente ma certo non senza luci e ombre, dalla parte di quelli che dichiarano di voler fare il possibile per affrontare l’emergenza climatica e si sa che gli States quando iniziano a muoversi sanno andare molto veloci. Anche se per cultura, preferendo l’auto-regolamentazione, sono solitamente allergici agli approcci norm-based. Sono stati pubblicati rapporti come quello del 2021 dell’Unep (il Programma per l’Ambiente dell’Onu), che ha espresso la necessità urgente di ridurre da subito e pesantemente la produzione di combustibili fossili, o come quello, sempre nel 2021, dell’Iea (l’Agenzia Internazionale dell’Energia), che hanno chiesto lo stop a nuovi giacimenti di fossili perché incompatibili con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Non c’erano ancora, nel 2016, i green bond sovrani (il primo è stato emesso dalla Polonia proprio a fine 2016), che oggi invece sono un biglietto da visita quasi indispensabile per Paesi che vogliano essere considerati credibili per i propri piani di decarbonizzazione dell’economia. Gli impegni a realizzare un’economia e una finanza net-zero (climaticamente neutra), anche qui non senza luci e ombre, si sono moltiplicati specie in vista della COP26 di fine 2021 e sono diventati ormai anch’essi la norma.

Una nuova era

L’entrata in vigore della tassonomia da quest’anno sembra arrivata cioè un po’ fuori tempo massimo. Perché il mondo ha già stabilito, almeno sulla carta, che certe attività non possono avere un futuro e bisogna quindi smettere di sostenerle finanziariamente, se la lotta alla crisi climatica è una cosa seria. Il cambiamento di questi anni è stato fortissimo, inoltre, per quanto riguarda nello specifico le iniziative normative e regolamentari sulla finanza sostenibile. Che è il terreno della tassonomia europea, ma ormai non più solo il suo. E questo è un punto fondamentale. Lo sviluppo di una tassonomia delle attività economiche ambientalmente sostenibili è diventato infatti un obiettivo di molte aree del pianeta, non solo delle economie che si definiscono più avanzate. Siamo pienamente entrati nell’era della “taxomania”, della mania per la tassonomia, così come l’ha definita la FoSDA (Future of Sustainable Data Alliance).

Nata per migliorare la disponibilità e l’affidabilità dei dati di cui gli investitori necessitano per orientare le proprie decisioni nel senso della sostenibilità, FoSDA ricorda come la primogenitura nel campo delle tassonomie a livello internazionale spetti alla Cina. Che l’ha sviluppata a partire dal 2015 pensando alle attività da sostenere attraverso il mercato nazionale dei green bond. Insieme all’Europa, altri Paesi con tassonomie già operative sono il Giappone, la Malesia e la Mongolia. Fra quelli che hanno già prodotto versioni, seppure non ancora definitive, di regolamentazioni o linee guida, spicca la Russia, insieme a Sudafrica e Corea del Sud. Infine c’è una lunga lista di Paesi che hanno aperto il cantiere per arrivare a definire un tassonomia, fra i quali il Canada (dove si parla per la precisione di “transition finance” e dove anche le critiche non mancano) e il Regno Unito, ma anche BangladeshCileIndiaSingaporeNuova Zelanda e altri. Messico e Sri Lanka, infine, hanno aperto la discussione. Intanto, a fine 2021 la Green Digital Finance Alliance ha lanciato una tassonomia per il “green fintech”. Mentre in Italia la Banca d’Italia, che l’anno scorso ha adottato una Carta degli Investimenti Sostenibili, ha annunciato per il 2022 il suo primo rapporto sugli investimenti sostenibili e i rischi climatici.

Il fermento è grande, insomma, nel panorama delle tassonomie e non solo. Il monitoraggio puntuale che da anni effettua PRI (Principi per l’Investimento Responsabile) non potrebbe parlare più chiaro: a livello internazionale gli strumenti di policy sulla finanza sostenibile (di vario genere, non solo tassonomie) hanno iniziato a crescere soprattutto dall’inizio degli anni 2000, ma è negli ultimissimi anni che la curva della crescita si è letteralmente impennata. E non è difficile prevedere che nel prossimo futuro la tendenza sarà destinata a rafforzarsi ulteriormente: c’è chi riferendosi a quanto sta accadendo parla di vera e propria “corsa” alla regolamentazione.

Evitare la frammentazione

Da qui a qualche anno, forse anche pochissimi anni, in che situazione ci troveremo? Difficile dirlo, ma è più che possibile che ci sarà un po’ di confusione sotto il cielo. È vero che i vari tentativi di definire una tassonomia condividono in generale il medesimo approccio di fondo e dichiarano almeno a livello di intenti di volersi mantenere saldamente ancorati a principi generali simili, come quello che vuole tassonomie science-based. È anche vero che molti, se non tutti, si sono ispirati al lavoro encomiabile fatto dall’Ue. Ma il diavolo, si sa, sta nei dettagli: i rischi di eccessiva frammentazione esistono e sono palpabili.

Allora è proprio qui che l’Unione europea potrebbe ritagliarsi un ruolo nuovo, una leadership nuova e forse ancora più importante. Si tratta di fare da leader nella ricerca del massimo grado di omogeneità fra le varie tassonomie. Di provare a condurre le danze, cioè, nel dialogo che si dovrà per forza avviare, almeno fra le principali aree economiche del pianeta, per non procedere in ordine troppo sparso. Un dialogo che l’Ue ha saggiamente avviato da tempo con il lancio a fine 2019 della International Platform on Sustainable Finance (IPSF), a cui già aderiscono Paesi che insieme rappresentano il 50% della popolazione mondiale e, soprattutto, il 55% per cento delle emissioni globali di gas a effetto serra. In particolare fin dal 2020 è stato avviato un dialogo tra Ue e Cina per una Common Ground Taxonomy (CGT) che individui soprattutto i possibili spazi di lavoro comune sul terreno delle tassonomie e possa rappresentare un punto di riferimento anche per altri Paesi che si stanno cimentando in questo difficile esercizio.

È stato detto infinite volte ma è sem​pre bene ribadirlo. La crisi climatica è una sfida globale e va affrontata globa​lmente. La finanza ha un ruolo fondamentale da svolgere in questa partita, ma anch’essa se vuole incidere deve muoversi in modo il più possibile coordinato, identificando obiettivi comuni a livello globale. Altrimenti la partita è persa in partenza e il finale, apocalittico, è già scritto: vedere alla voce “Don’t Look Up”.

Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​