Clima: servono ancora le COP?

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Clima: servono ancora le COP?

La ventisettesima Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) tra proposte e dubbi. Dopo 30 anni, dovremmo cambiare formula?

Dal 6 al 18 novembre 2022 in Egitto, a Sharm El Sheikh, è in scena la ventisettesima Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), accordo internazionale definito nel Summit della Terra di Rio del 1992 – per questo viene a volte chiamato Accordo di Rio – ed entrata in vigore nel 1994.

Da una parte c’è chi la ritiene ormai poco più di un rito, che dopo quasi trent’anni dovrebbe essere profondamente riformato, se non proprio cancellato. Da una parte c’è chi la ritiene ormai poco più di un rito, che dopo quasi trent’anni dovrebbe essere profondamente riformato, se non proprio cancellato. Perché lungo tutti questi anni la crisi climatica ha continuato ad aggravarsi e l’argine che le COP avrebbero dovuto fornire è stato ben poca cosa: ci sono grafici che mostrano impietosamente come la progressione nell’aumento della CO2 in atmosfera negli ultimi trent’anni non sia stata minimamente scalfita dal susseguirsi delle COP, e dai loro assai scarni esiti. Inoltre, l’evento si è trasformato nella passerella ideale per i cosiddetti “grandi della terra”, che la utilizzano più che altro a beneficio dei media per rilasciare dichiarazioni altisonanti e prendere impegni sfidanti, che poi però restano in larga misura sulla carta.

Dall’altra, c’è chi sostiene che meglio di questo l’umanità non ha saputo produrre, per discutere tutti insieme cosa fare sul clima. E che quindi fare a meno di questo appuntamento, che comunque nel 2015 seppe produrre l’Accordo di Parigi, vorrebbe dire lasciare ogni speranza. Abbandonare, cioè, ogni realistica possibilità di fare comunque dei progressi per provare, da domani, a contrastare la crisi climatica almeno un po’ di più di quanto non si sia fatto fino a oggi.

Come spesso accade la verità sta probabilmente nel mezzo. Perciò sarebbe opportuno guardare alla COP27 come a una tappa che è sì indispensabile per coordinare l’azione globale sul clima, restando però consapevoli che non è certo l’unica, forse neanche la più importante, che insomma non tutto si decide lì. Una tappa che, in ogni caso, si spera possa avvicinare il momento in cui le decisioni radicali che ormai s’impongono verranno prese su scala globale. In sintesi, il momento in cui si inizierà a considerare la crisi climatica per quello che è, dati scientifici clamorosamente abbondanti alla mano e non da oggi: la più grande minaccia che l’umanità abbia mai dovuto affrontare.

Mitigazione, adattamento, finanza, collaborazione sono i quattro macro-obiettivi su cui si cercherà di ottenere dei progressi rispetto alla COP26 di Glasgow. Con l’idea di passare il più possibile – anche se l’abbiamo già sentito tante volte – dalla fase degli impegni e della pianificazione a quella dell’attuazione e dei risultati. Le giornate del summit saranno dedicate ciascuna a un tema: ad esempio, finanza il 9 novembre, decarbonizzazione l’11, agricoltura il 12, energia il 15, biodiversità il 16. Il documento finale sarà quello in cui verranno sintetizzati i maggiori risultati raggiunti delle negoziazioni, da lì si potrà vedere quali passi avanti saranno stati fatti concretamente rispetto al Glasgow Climate Pact. Nel quale per la prima volta, alla ventiseiesima COP (la prima si tenne a Berlino nella primavera del 1995), era stata citata la parola “fossili”. Risultato a suo modo storico, certo, ma che lascia a dir poco perplessi. Perché tutti sanno da sempre che l’utilizzo dei combustibili fossili è di gran lunga la prima causa del riscaldamento globale e quindi della crisi climatica. E che dunque questo tema avrebbe dovuto essere largamente al centro della scena ed esplicitamente richiamato nei documenti finali di ogni COP, fin da subito.

Così, purtroppo, non è stato. Ma quest’anno su questo punto, come detto cruciale, forse qualcosa potrebbe cambiare, o almeno si spera. Grazie a un’iniziativa che non è nata in ambito Onu ma che all’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite tenutasi a settembre a New York ha vissuto un passaggio cruciale.

In tale prestigioso contesto, infatti, il Presidente della Repubblica di Vanuatu, piccola nazione nell’Oceano Pacifico meridionale a poco meno di duemila chilometri dall’Australia, ha fatto un appello alla comunità internazionale che potrebbe passare alla storia: ha chiesto di definire un Trattato internazionale di Non-Proliferazione delle fonti fossili di energia. L’iniziativa per la definizione del #FossilfuelTreaty, per dirlo alla maniera di Twitter, è nata circa due anni fa, al di fuori delle COP. Si tratta di uno strumento che in sostanza cerca di coordinare a livello globale, ovviamente accelerandola, la gestione dell’affrancamento del nostro modello di sviluppo dalle fonti fossili di energia. Ha già un vasto sostegno, da scienziati e accademici, premi Nobel, parlamentari, operatori della sanità, leader religiosi, città e governi regionali, dal Vaticano e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma mai aveva ricevuto il sostegno esplicito di uno Stato prima del passo compiuto da Vanuatu. Poi seguito dal secondo Stato, Timor Est, Paese produttore di combustibili fossili. Quindi è arrivato il Parlamento Europeo, che ha chiesto si lavori al Trattato in una risoluzione approvata il 20 ottobre in vista di COP27. Come dire che la “febbre” da Trattato ha iniziato a circolare anche al massimo livello, quello degli Stati, dove alla fine si devono prendere le decisioni per contrastare la crisi climatica.

Se in Egitto si registrassero dei passi avanti concreti sull’adozione del Trattato, sarebbe uno dei risultati probabilmente più importanti. Ma, è ovvio, ce ne potrebbero essere e soprattutto si auspica che ce ne siano molti altri. Ad esempio, ci si attende che tutti gli Stati che si erano impegnati a Glasgow a porre fine al finanziamento pubblico di progetti fossili all’estero – Italia compresa – mantengano pienamente fede alle loro promesse, come giustamente chiedono gli attivisti climatici internazionali che hanno seguito da vicino tutta la vicenda. Che la questione del finanziamento delle perdite e dei danni (“loss and damage“) che già la crisi climatica sta ampiamente causando, un tema che ha nella giovane attivista climatica ugandese Vanessa Nakate uno dei portavoce più noti a livello globale, prenda stabilmente spazio al centro delle negoziazioni. Che sul contrasto alla deforestazione, su cui a Glasgow anche si erano presi impegni importanti, si proceda più speditamente ed efficacemente. Si auspica inoltre che l’Egitto, Paese che com’è noto non brilla di certo per il rispetto dei diritti umani, garantisca il più possibile agli esponenti della società civile del proprio Paese la partecipazione alla COP27.

Nell’avvicinamento alla COP27, annunci come quello della sponsorizzazione dell’evento da parte di Coca-Cola hanno fatto storcere il naso a molti, facendo temere che anche questa volta le ragioni del “big business” prevarranno. Ma pochi giorni prima dell’inizio della COP27 è arrivato anche il libro in cui Greta Thunberg ha raccolto molte fra le più autorevoli voci che ormai da anni a livello mondiale denunciano la gravità della crisi climatica e la necessità di fare molto di più, molto più in fretta. Sta a ognuno di noi decidere se credere che un’altra lotta alla crisi climatica sia possibile. O, meglio, che la vera lotta, a trent’anni dal Summit della Terra di Rio, possa finalmente avere inizio.

Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​