La questione demografica: un’emergenza soprattutto italiana

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La questione demografica: un’emergenza soprattutto italiana

In un breve-medio termine, per l’Italia, avere tanti anziani e pochi giovani significa avere un’economia che non cresce, non crea ricchezza e che mette a rischio la tenuta del Welfare State. Il tema è al centro dell’edizione 2022 del Forum Welfare, Italia organizzato da Gruppo Unipol e The European House Ambrosetti.

L’emergenza demografica e l’impatto sul welfare, nonché sullo sviluppo economico futuro del Paese, sono al centro dell’edizione 2022 del ‘Welfare, Italia’ Forum 2022 organizzato da Gruppo Unipol. Oltre a Carlo Cimbri, presidente Unipol e UnipolSai parteciperanno fra gli altri: il vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri Antonio Tajani, la ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella, il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara, il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, Giuseppe Guzzetti, già presidente di Fondazione Cariplo.

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A differenza dell’emergenza climatica, la cui percezione avvolge e interessa in maniera più o meno univoca l’intero pianeta, la questione demografica rappresenta un’emergenza a due facce, un problema che cambia segno a seconda che si guardi alla dimensione globale piuttosto che a quella locale.

Se a livello globale infatti l’emergenza demografica è considerata un problema perché la popolazione mondiale complessiva cresce e cresce fin troppo secondo alcuni, suscitando allarme per l’impatto sulle risorse alimentari ed energetiche del pianeta, viceversa su base locale l’andamento demografico suscita preoccupazione (o almeno dovrebbe) per via del suo opposto: in alcune aree del mondo, specie dell’Occidente più sviluppato, la natalità appare in costante declino e ogni anno in alcuni Paesi europei si battono nuovi record negativi nel numero di nuove nascite. In Europa, l’Italia rappresenta uno dei casi più acuti di questo fenomeno.

Durante la stagione del suo Governo, Mario Draghi ebbe ad affermare che «un’Italia senza figli è un’Italia che non ha posto per il futuro, è un’Italia che lentamente finisce di esistere. Lo Stato deve mettere la società, uomini e donne, in grado di avere figli».

Per meglio contestualizzare la differente rilevanza della questione demografica in Italia, nell’UE e nel mondo, è utile osservare le più recenti proiezioni della popolazione realizzate dall’ONU: secondo lo scenario mediano, al 2050 la popolazione italiana si ridurrà dell’11% rispetto ai valori del 2022  e a livello europeo del 5%, mentre nel mondo aumenterà del 22%; al 2070, si stima che la popolazione italiana si ridurrà del 25% rispetto ai valori del 2022 (44,3 mln di abitanti), quella europea del 13%, mentre quella mondiale aumenterà ulteriormente (10,3 mld di abitanti, +29% vs. 2022). Queste proiezioni delineano degli scenari molto diversi, tra l’Italia, che sarà chiamata a gestire la diminuzione della popolazione, e il mondo nel suo complesso, chiamato invece a gestire un forte aumento demografico (in media, nel periodo 2022-2050 la popolazione mondiale potrebbe aumentare di 62 milioni di persone all’anno); nel mezzo, invece, l’UE, con un andamento al ribasso ma meno marcato rispetto all’Italia.

Alla luce di queste considerazioni, si può comprendere come mai – all’interno del principale strumento globale di indirizzo verso uno sviluppo sostenibile, ovvero l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU, con i suoi 17 Sustainable Development Goals – non vi sia cenno all’emergenza demografica legata alla progressiva denatalità di alcune aree del mondo. Gli indicatori SDGs dell’ONU e i criteri ESG non rilevano le specificità demografiche nazionali. I riferimenti alla questione demografica non sono orientati alla necessità di invertire trend demografici, ma piuttosto alla questione di salute e sanità (affrontata soprattutto dall’Obiettivo 3 e dai sotto-obiettivi, quali la riduzione del tasso di mortalità materna e delle morti evitabili di neonati e bambini). Dunque, pur essendo convenzionalmente riconosciuto un tasso di fertilità pari a 2,1 per donna per mantenere – nel lungo periodo – stabile la popolazione (c.d. replacement rate), l’ONU non fissa alcun target con riferimento al tasso di natalità all’interno degli SDGs. Solo in questa ottica appare – entro certi limiti – comprensibile che il sistema di policy mondiale costruito dall’ONU per accrescere – anche in modo molto stringente e misurabile negli obiettivi – la sostenibilità delle azioni umane e delle imprese a tutela dell’ambiente naturale, non si preoccupi di assicurare la sostenibilità e la rigenerazione delle singole comunità di persone.

Anche guardando a quanto accade in Unione Europea sembra riproporsi la stessa carenza di visione sul tema demografico e della denatalità: all’interno del Report Demografic Outlook for the European Union del maggio 2022 si riconosce la presenza di un’elevata eterogeneità tra i Paesi (e all’interno dei Paesi) in tal senso, e quindi il fatto che il problema della denatalità vada affrontato “caso per caso”, non esistendo una one-size-fits-all policy. Di fatto ogni Paese UE deve riflettere e affrontare da solo le proprie curve demografiche e le relative conseguenze sui propri conti pubblici, in termini di sostenibilità della spesa pensionistica, della spesa sanitaria, dei servizi, ecc.

La Commissione attuale, tuttavia, sembra riportare una maggiore attenzione sul tema, con la creazione, per la prima volta, di una DG “for Democracy and Demography” (attualmente presieduta dalla Vicepresidente della Commissione Dubravka Šuica) e con l’istituzione di un “High Level Group on the future of social protection and of the welfare state in the EU”.

All’interno del Report finale sulla Tassonomia sociale realizzato dall’EU Platform on Sustainable Finance (il gruppo permanente di esperti istituito dalla Commissione Europea per assisterla nello sviluppo delle sue politiche di finanza sostenibile, in particolare l’ulteriore sviluppo della tassonomia), il tema demografico non viene mai citato, per quanto venga affrontato indirettamente da fattori ad esso connesso (in primis lavoro dignitoso, chiusura del gender gap e politiche familiari). Occorre comunque sottolineare che il Report rappresenta solo un punto di partenza (esplicitamente “non esaustivo”) per indirizzare le riflessioni della Commissione, e non ancora una proposta formale e strutturata.

In un breve-medio termine, per l’Italia, avere tanti anziani e pochi giovani significa avere un’economia che non cresce, non crea ricchezza e che mette a rischio la tenuta del Welfare State. Avere pochi giovani significa anche una società meno dinamica, meno orientata all’innovazione, meno attrattiva per le risorse più valide ed energiche, che tenderanno a spostarsi all’estero e a contribuire allo sviluppo di altri paesi.

L’emergenza demografica in Italia riuscirà ad “entrare nell’agenda” dei decisori e dei policy makers? Troverà masse di studenti disposti a investire le proprie Sunday for Future? Ai più giovani l’ardua sentenza.

Nato nel 1966. Laureato in Giurisprudenza, avvocato, ha conseguito il diploma MBA Executive Master in Business Administration alla Luiss Business School. È Responsabile Institutional & Public Affairs Gruppo Unipol. È Consigliere di Amministrazione della Fondazione Unipolis. Nella sua attività professionale è stato ricercatore di ruolo al CENSIS, dove si è occupato di mercato del lavoro, rappresentanze e pubbliche amministrazioni; Direttore di Confindustria-AssoBirra e ha rappresentato il settore birrario italiano a Bruxelles nell’associazione europea The Brewers of Europe e in qualità di Segretario Generale dell’Osservatorio Permanente per i Giovani e l’Alcol; è stato Direttore delle Relazioni Esterne di Confagricoltura.