Lo sviluppo del software con la GenAi
Alcune considerazioni sull’impatto della GenAI negli ambienti di sviluppo collaborativo: dall’Hackathon alla pratica quotidiana degli sviluppatori software. Hackathon
Oggi l’85% delle società quotate sui principali mercati ha attivato sistemi di misurazione e programmi di costruzione e protezione della reputazione. Il Gruppo Unipol è in prima fila con un progetto integrato Comunicazione/Risk Management.
Oggi l’85% delle società quotate sui principali mercati ha attivato sistemi di misurazione e programmi di costruzione e protezione della reputazione. Il Gruppo Unipol è in prima fila con un progetto integrato Comunicazione/Risk Management.
Nel suo romanzo Down and out in the Magic Kingdom, Cory Doctorow descrive un non troppo lontano futuro nel quale il denaro è stato sostituito dal whuffie, una moneta fittizia basata sulla reputazione personale. Ogni individuo può incrementare il proprio capitale compiendo buone azioni o avendo una fitta rete di relazioni sociali; se però mente, tradisce, ruba o abbandona la vita sociale, il suo gruzzolo si riduce fino a estinguersi, e lui si trasforma in un soggetto da evitare accuratamente. Nel romanzo infatti la prima cosa che chiunque fa quando conosce una persona è informarsi sul suo whuffie per determinare se è opportuno frequentarla. La moneta di scambio, nel futuro immaginato da Doctorow, è il capitale personale o più precisamente la sua fiduciabilità. Al di là del valore letterario dell’opera è interessante vedere fin dove si era spinta l’immaginazione dell’autore, già nel 2003, anno di pubblicazione, prefigurando uno scenario che dopo poco più di dieci anni non ci trova affatto sorpresi.
La reputazione – delle persone come delle aziende – è sempre stato un bene importante ma prima dell’avvento delle tecnologie digitali le informazioni utili a farsi un’idea sull’affidabilità di un individuo o di un’impresa – a meno che si trattasse di realtà con forte esposizione – erano difficilmente rintracciabili e spesso connesse alla sola esperienza diretta: la reputazione si formava nel tempo, come oggi, ma molto più lentamente e la sua persistenza, in positivo o in negativo, era legata ai limiti della memoria umana. Oggi la tecnologia non solo permette di raccogliere e analizzare quantità impressionanti di dati su qualsiasi entità, ma soprattutto la memoria digitale non si estingue e i comportamenti messi in atto e tracciati in rete sopravvivono teoricamente per sempre: ogni volta che si compie un’azione in rete la carta d’identità reputazionale si arricchisce di dettagli. Michael Fertik – esperto di digitale e di privacy e fondatore di reputation.com – sostiene nel suo libro The Reputation Economy che siamo entrati nell’economia della reputazione e che oggi essa è più influente del denaro o del potere. Tripadvisor è stato uno dei primi a cogliere le opportunità dell’economia della reputazione: con la pubblicazione delle recensioni dirette degli utenti su hotel, ristoranti e attrazioni turistiche, e la loro condivisione aperta in rete, è in grado di influenzare le scelte dei potenziali clienti. Per citare un caso domestico, ArtisanAdvisor, il portale che recensisce gli artigiani, ha mutuato la stessa logica e consente di selezionare il professionista in base alla prossimità territoriale e alle valutazioni del servizio rilasciate da chi le ha sperimentate in prima persona.
D’altro canto un numero sempre crescente di imprese si avvale dello stesso principio per selezionare o premiare i propri clienti: l’analisi dell’account personale su Facebook è in alcuni casi un passaggio irrinunciabile per decidere se affittare la propria casa o per il noleggio di auto da parte di privati. Il punteggio è denaro sonante, è il vero decisore che può decretare il successo o il fallimento di un’attività aprendole o precludendole le opportunità di sviluppo. Se si può misurare, allora la reputazione si può – anzi si deve – gestire. E qui entrano in gioco, più che i Big Data, i Big Analytics, cioè la capacità di leggere e decifrare i dati, attraverso algoritmi che sappiano estrarre significato da milioni di informazioni e ricavarne linee concrete di azione. La reputazione è business e un numero crescente di aziende lo ha compreso. La correlazione tra corporate reputation e performance finanziarie è forte: un’indagine di Reputation Institute, leader nel corporate reputation management, dice che il 64% delle persone acquisterebbe prodotti di società con una forte/eccellente reputazione mentre soltanto il 25% li comprerebbe da società con una reputazione debole.
Oggi l’85% delle società quotate sui principali mercati ha attivato sistemi per la misurazione della reputazione e sempre più numerose sono quelle che stanno investendo in programmi di costruzione e protezione della reputazione. Tra queste c’è anche il Gruppo Unipol, con un progetto integrato Comunicazione/Risk Management, nato a fine 2014 e che gradualmente sta diventando un vero e proprio processo aziendale, con l’obiettivo di integrarsi con le metriche di business ed entrare a tutti gli effetti nel business planning strategico. Il progetto è stato selezionato da Reputation Institute per l’innovatività del suo approccio integrato volto contemporaneamente alla costruzione e alla difesa del capitale reputazionale e presentato da Alberto Federici – Chief Communication Officer del Gruppo Unipol – al Reputation Leaders Network Summit svoltosi il 4 ottobre scorso a Boston. Sul piano della costruzione, si è partiti dall’analisi della reputazione presso sette diversi stakeholder (dipendenti, clienti, agenti, opinione pubblica, comunità finanziaria, istituzioni, opinion maker e media) e si sta ora procedendo alla messa a punto di specifici piani di azione mirati al rafforzamento della performance reputazionale. In questa prospettiva gli stakeholder (interni ed esterni) diventano il focus della strategia aziendale in quanto capaci di orientare le decisioni di business.
Sul piano della protezione, sono stati identificati e valutati i possibili scenari di rischio e sono in corso di stesura i piani di mitigazione, ex-ante ed ex-post, per ridurre l’esposizione al rischio e l’impatto di eventuali crisi reputazionali, qualora si concretizzassero, attraverso interventi organizzativi e di governance. I due piani operativi utilizzano la stessa metrica che è quella proposta da Reputation Institute e che Gruppo Unipol ha adottato: al centro del modello c’è il Rep Trak Pulse Score che misura la connessione emotiva tra l’impresa e la pubblica opinione in termini di stima, rispetto, ammirazione e feeling. Nella transizione già avvenuta all’economia della reputazione, il passaggio evolutivo determinante è la consapevolezza che oggi ciò che importa veramente sono i fatti e che il comportamento morale risulta essere un elemento in grado di generare valore per l’azienda in maniera duratura nel tempo, un vero vantaggio competitivo.
Cees Van Riel, fondatore del Reputation Institute insieme a Charles Fombrun, quando nel 2014 ha presentato in Italia i trend nel reputation management di qui al 2020 ha messo ai primi posti due statement: “Know who you are and stick to it” e “Be socially relevant”. Il primo rappresenta un invito a garantire coerenza tra il posizionamento identitario, le promesse e i comportamenti agiti sul mercato, con onestà e autenticità. Il secondo è il richiamo alla consapevolezza che ogni impresa deve il proprio successo anche all’environment sociale che la circonda e che la favorisce nel raggiungimento dei propri obiettivi, e come gli altri stakeholder deve poter trovare un ritorno equo e rilevante. Il concetto di vicinanza in cui il posizionamento del Gruppo Unipol trova espressione è la sintesi tra le scelte di business, di responsabilità sociale, e di un approccio strategico che mette al centro l’ascolto delle istanze degli stakeholder con il costante monitoraggio e il possibile miglioramento del patrimonio reputazionale.