Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Il Decennio Onu per il ripristino dell’ecosistema (2021-2030) dà a tutti di l’opportunità di costruire una nuova forma sociale ed economica dove la natura riprende il suo posto.
Nel post precedente post abbiamo discusso l’importanza del nuovo Decennio ONU per il Ripristino degli Ecosistemi sulla biodiversità e il clima. Ma la sfida che esso lancia riguarda anche le nostre vite, per i benefici che ci verrebbero da ecosistemi rivitalizzati; e anche perché tutti noi possiamo essere attori protagonisti di questa grande mobilitazione planetaria per la natura.
Il termine “paradiso” proviene dall’antico persiano e significava “giardino”. Un particolare tipo di giardino, suddiviso in quadranti che rispettavano certe relazioni armoniche, concepito come luogo ospitale per l’essere umano in alleanza con la natura. Molte tradizioni e culture parlano di un giardino delle origini, o di un’iniziale “età dell’oro”, e tutte evocano una regola di armonia ed equilibrio con la terra che ci è stata data in dono. Non parlano della natura selvaggia come quintessenza del massimo benessere: un giardino è qualcosa di diverso dalla giungla. È un luogo, invece, in cui la ragione è stata applicata a valorizzare la natura: un luogo in cui la spontanea generosità del vivente verso tutte le sue componenti è migliorata – non negata – dal progetto razionale, che aumenta le possibilità di tutti i viventi di essere a loro volta generosi con il sistema.
La saggezza stratificata nelle antiche tradizioni, esattamente come la scienza moderna, non predica quindi il ritorno allo stato selvatico e non ammonisce a cessare dal fare progetti e trasformare il pianeta, non maledice il progresso. Ogni specie trasforma l’ambiente intorno a sé: anzi, l’ecosistema è continua trasformazione in equilibrio. Ma il genere umano, poiché possiede una capacità di scelta non totalmente limitata ai comportamenti istintivi, può trasformare l’ambiente in due maniere molto diverse: capendo l’architettura della natura e quanto può darci, adoperandosi per sprigionarlo a vantaggio di sé e dell’intero sistema di cui ci si percepisce parte; oppure ritenendo che quel sistema è inadeguato alle proprie ambizioni, non essenziale, e quindi mirando a mutarne le regole, sostituendone i meccanismi con delle soluzioni alternative. Perché mai dovrei piantare un albero per godere della sua ombra fresca? Compro un condizionatore!
In termini più precisi, noi abbiamo chiesto alla tecnologia e all’economia di darci conforto e sicurezza. Queste in molti casi hanno risposto distruggendo la natura per fornire meccanismi che sostituiscono in maniera artificiale dei servizi che la natura stessa può fornire con qualità migliore e con una completezza assoluta rispetto a tutti i bisogni dell’uomo. Ci è invece possibile costruire un’economia che cresce, si sviluppa, si espande riportando nelle nostre vite i servizi ecosistemici.
Come specie, ci siamo formati e siamo cresciuti in un sistema che per ciò stesso ci dà esattamente quello di cui abbiamo bisogno, anche oltre la nostra consapevolezza delle necessità umane. Tutte le prestazioni che la natura fornisce al nostro sostentamento e benessere, sebbene siano accompagnate anche da rischi e minacce, sono sintonizzate finemente sulla nostra reale consistenza fisiologica e psicologica e sono tecnicamente definite “servizi ecosistemici”: ne avevamo parlato esaminando l’importanza della biodiversità.
Noi abbiamo deciso in molti casi di privarci di questi servizi della biosfera sostituendoli con surrogati artificiali: questi, mentre sono costosi e fonte di scorie, non forniscono una soddisfazione completa ed equilibrata, semplicemente perché noi stessi non abbiamo ancora capito tutta la nostra delicata complessità; e quindi non siamo in grado in molti casi di concepire sostituti tecnologici che realmente colgono ciò che ci giova, al posto di servizi forniti da una natura che ha potuto conoscerci a fondo attraverso milioni di anni di reciproco adattamento.
Tutti noi conosciamo la differenza di benessere, in una calda giornata, che dà addentrarsi in un bosco rispetto al refrigerio fastidioso che fornisce l’aria condizionata di un centro commerciale in cui rifugiarsi se il bosco non c’è. La temperatura e l’umidità prodotte dalla vegetazione sembrano fatte apposta per darci un benessere integrale, a 360 gradi, che le nostre macchine non riescono a riprodurre. Quando la natura fa qualcosa per noi – ovvero quando porge un servizio ecosistemico – questo sembra superare le nostre aspettative e coprire l’insieme del nostro benessere anche per esigenze diverse dal desiderio che volevamo soddisfare, e che non avevamo considerato. Non ne eravamo nemmeno consapevoli.
Al bosco chiedevo solo la frescura, ma ci viene anche l’umidità, un intreccio sonoro gradevole, una composizione di immagini e colori che infonde pace, e altro. E non si tratta di preferenze personali: le neuroscienze certificano che l’esperienza fornita dal servizio ecosistemico surclassa l’equivalente che ci sforziamo di produrre artificialmente in nome di un malinteso conforto, e produce un risultato di complessiva serenità.
Non è tutto gratis e indolore: moscerini, zanzare, e la pietra su cui mi siedo nel bosco è meno comoda dello sgabello nell’area ristoro dello shopping centre. Quindi è meglio il centro commerciale! Allora andiamoci, c’è pure il parcheggio gratuito! Oppure, possiamo gestire il bosco trasformandolo in giardino, dove non è vietato mettere qualche panchina tanto comoda quanto lo sgabello della Food Plaza di consumolandia: non dobbiamo subire inerti gli aspetti dell’ecosistema che ci sono ostili, ma c’è una bella differenza fra un bosco rispettato anche se trasformato in giardino a misura d’uomo, e un bosco abbattuto per far posto a un centro commerciale. Nel complesso, e in modi di cui non ci rendiamo neanche conto, il bosco sembra rispondere “sì” all’integralità del nostro essere, mentre dalle zanzare possiamo difenderci senza raderlo al suolo e una panchina, appunto, possiamo sempre sistemarla sotto le fronde. Il tutto eliminando molti scarti e tantissima ingiustizia, perché i servizi della natura non possono essere concentrati in pochi grandi poli produttivi e poi esportati.
Si tratterebbe, inoltre, di un ritorno coi piedi per terra che costruisce giustizia perché mette tutti in condizione di contribuire con pari dignità. In effetti, una porzione dell’umanità ha lasciato indietro l’altra di intere lunghezze nella tecnologia industriale, che è utile dove è utile; ma per tutto il resto che dobbiamo recuperare, per la comprensione di ciò che la natura può offrire, le comunità meno industrializzate conservano molto del sapere necessario. Lungo i deserti in cui si snoda buona parte dell’antica Via della Seta incontriamo strane e vaste cupole in pietra dette “yakchal”, che servivano da deposito delle merci deperibili portate dalle carovane: all’interno vi si mantiene costante una temperatura prossima ai 0 gradi centigradi senza il dispendio di un unico watt di energia, lasciando solo giocare i venti. Gli stessi venti, captati da alti camini, garantiscono una temperatura gradevole tutto l’anno – e persino la produzione di ghiaccio negli scantinati – nelle case tradizionali delle aride e calde piane dell’Asia minore e centrale. Ma anche senza inoltrarci nelle Mille e una Notte, quanta sapienza tradizionale, che fa appello alla generosità della natura invece di calpestarla, potremmo recuperare dalle nostre campagne, rendendo loro dignità e giustizia?
Pare astratto, ma sono innumerevoli gli ambiti in cui, con il nostro portafoglio, possiamo votare per la natura e contro i suoi inetti surrogati artificiali. All’atto pratico può significare, ad esempio, l’orto urbano o familiare: e ogni coltivatore sa che un orto dà molto di più che zucchine e pomodori, specie se fra gli obbiettivi della famiglia vi è anche far crescere dei figli su basi solide. Può anche significare sostituire l’aria condizionata con alcune piante frondose sul balcone di casa e applicare l’antica abitudine di spalancare le finestre la mattina presto nelle giornate afose e socchiudere invece le persiane durante le ore di sole e d’afa. Certo, non tutti possono: se non ho i mezzi per lasciare l’unica abitazione che ho, sotto cui hanno costruito un cavalcavia ad alto scorrimento, le fronde e le finestre aperte me le scordo. Ma un mercato che cerca le pareti spesse delle case com’erano – fatte tra l’altro per durare secoli – e si accorge di quanto sia meglio ascoltare il vento al posto del ronzio di un condizionatore, spinge verso una città dove nessuno deve sottostare all’umiliazione di un cavalcavia davanti alla finestra.
Qui si annida l’errore fondamentale nel nostro rapporto con la natura, un ciclo vizioso. Viviamo vite frenetiche e appiattite nella ricerca del successo e dell’espansione economica fini a sé stessi, e ne consideriamo il profitto lo strumento più efficace. Ma questo stile di vita cosiddetto moderno ci ruba il bene più prezioso, il tempo per la qualità: produce la necessità della monodose precotta al posto del benessere, perché non concede né valorizza il tempo del suo equivalente reale e naturale. Per quanti proclami di genuinità degli ingredienti campeggino sulla vaschetta pronta a essere infilata nel forno a microonde, essa contiene un surrogato di prodotti e ancor più di esperienza e vita. Genera spazzatura materiale, ma riduce a scoria anche la qualità del nostro sentire.
Risolveremmo tutto, rivolteremmo il mondo come un calzino in pochi anni – per il verso giusto – se solo tutti esigessimo il tempo di tagliare le verdure del minestrone e farlo cuocere, far lievitare il pane, rammendare i pantaloni, parlarci di persona invece che sui social, e magari raccogliere castagne nei boschi. Forse il grande errore agli albori dell’avventura di homo sapiens, è stato credere che potevamo inventare un modello diverso e migliore di quello che ci offre il tessuto di vita cui apparteniamo. Se tornassimo a capire quel che abbiamo, invece di cercare qualcosa di meglio che non sappiamo inventare staremmo meglio. E un nuovo Decennio dell’ONU ne dà – a tutti – l’opportunità.