Automotive: i vantaggi dell’economia circolare
Tutti noi conosciamo il termine di obsolescenza programmata, ovvero una progettazione finalizzata a far durare un dispositivo soltanto per un certo numero di anni, oppure di operaz
La moltiplicazione dei documentari su personaggi viventi della musica, del cinema e dello sport sono il termometro di come sia cambiato il rapporto tra pubblico e celebrità.
Una parola chiave della contemporaneità è celebrities. Una categoria sociale, antropologica, culturale, cinematografica e editoriale che non rappresenta certo una novità, perché come è ovvio le persone famose sono sempre esistite e il culto del divismo è un ingrediente fondamentale dell’immaginario pop(olare) di qualunque epoca storica.
A essere cambiato, da qualche anno, è il rapporto del pubblico con le celebrità, e specularmente quello delle celebrità con il pubblico.
Quest’arma potentissima – lo testimoniano i dati di ascolto, le quantità di streaming, i trend topic e le ricerche su Google – sono i documentari, le serie tv, i reality, insomma tutto ciò che permette di cristallizzare visivamente un arco narrativo sulla propria vita e carriera in modo da presentare la miglior versione di sé stessi. Un compito che una volta era delegato alle autobiografie. Ma si sa: scrivere un libro (o trovare il ghost writer adatto) può essere lungo e faticoso, la gente legge sempre di meno, insomma per i tempi e le abitudini di consumo odierne molto meglio un bel doc. Soprattutto se prodotto, finanziato e in alcuni casi persino girato in prima persona.
A scorrere le vetrine delle varie piattaforme in streaming, il trend “celebrities” sembrerebbe uno dei più in voga. Su Netflix, Prime Video, Apple Tv, Disney Channel e così via c’è solo l’imbarazzo della scelta. Dalle inevitabili stelle del pop (Beyoncé, Madonna, Lady Gaga, Taylor Swift, Robbie Williams, Coldplay…) al calcio nella sua versione più glamour (la docuserie su Beckham, o per meglio dire sui Beckham vista l’inscindibilità in termini di “brand” del biondo David dalla moglie, l’ex Spice Girls Victoria Adams, oppure il film su Cristiano Ronaldo, auto-celebrativo e statuario come il suo protagonista) da attori e attrici il cui apporto alla storia del cinema è stato più o meno memorabile e non sempre per ragioni squisitamente artistiche (Sylvester Stallone, Pamela Anderson) alle famiglie reali o ai loro spin off (Harry & Megan, ovvero i reietti della Windsor family che danno la loro versione dell’acerrimo scontro con Carlo, William e -parlandone da viva – Elisabetta, un “parenti serpenti” in salsa monarchica girato dalla casa di produzione di proprietà della coppia).
Non mancano, naturalmente, gli italiani. Negli ultimi due anni sono arrivati documentari su Vasco Rossi (che ne Il Supervissuto ha comunque il merito di raccontarsi nel modo ruspante e genuino che in fondo lo caratterizza), Elodie, Tiziano Ferro, gli eroi trap/hip hop Dark Polo Gang per arrivare a un personaggio sui generis come Claudio Cecchetto, che forse oggi presso il grande pubblico non è più famosissimo come nei decenni passati ma può comunque contare su un dream team di celebrità (scoperte quasi tutte da lui: Fiorello, Amadeus, Jovanotti, Fabio Volo e così via) che ne raccontano la storia in People from Cecchetto. Da non dimenticare, naturalmente, il recente Raffa, diretto da Daniele Lucchetti per la Disney Italia, nelle cui tre puntate si fa quasi fatica a riassumere in tutta la sua prorompente vitalità una icona televisiva nazionale come Raffaella Carrà. Quest’ultimo fa però storia a sé, e per il più banale e malinconico dei motivi, ossia il fatto che la star in questione non è più tra noi.
I protagonisti dei “celebrities doc”, al contrario di gran parte di quelli dei documentari più canonici dedicati a personaggi scomparsi da anni – la lista sarebbe lunghissima da Nina Simone ad Amy Winheouse passando per Kurt Cobain e Mohamed Alì – sono infatti tutti vivi, in molti casi con un potere mediatico notevole e spesso con qualche lato oscuro da emendare. O del quale non si parla affatto. I succitati Beyoncé e Beckham ne sono degli esempi. La prima, dopo essersi già celebrata con il film concerto Homecoming, è tornata con Renaissance a erigersi un secondo personale monumento documentando il suo ultimo faraonico tour mondiale. Nel quale, tuttavia, la cantante che più volte ha dichiarato di ispirarsi alla gay culture non fa il minimo cenno alla performance esclusiva negli Emirati Arabi, paese nel quale l’omosessualità è fuori legge. Semplice dimenticanza?
Allo stesso modo, l’ex centrocampista di Real Madrid e Manchester United “glissa” sul proprio ruolo di ambasciatore sontuosamente remunerato della Coppa del Mondo in Qatar, altra nazione non esattamente in prima fila nel rispetto dei diritti umani. In altre occasioni, il documentario (o l’auto-documentario) diventa pretesto per dare la propria versione – senza contradditorio – di una storia complicata. Parlando di gossip e di un’altra coppia che ha a che fare con il mondo del pallone, è il caso per esempio di Unica, in cui Ilary Blasi racconta dal suo lato la separazione da Francesco Totti, con tanto di detective privati e Rolex spariti. Un esempio particolarmente cringe ma tutto sommato innocuo, mentre per quanto riguarda Il principe la questione è più seria trattandosi di un omicidio. Nella docu-serie di Beatrice Borromeo assistiamo alla strenua difesa di Vittorio Emanuele di Savoia – anche noi abbiamo i nostri (ex) reali da spendere in un documentario – dall’accusa di essere stato il responsabile della morte del giovane tedesco Dirk Hamer, ma l’approccio giornalistico e indipendente dell’autrice Beatrice Borromeo salva la narrazione da qualunque tentativo apologetico (non a caso le reazioni dei Savoia sono state tutt’altro che concilianti).
Qualunque documentario è sempre mediato da un punto di vista, da uno sguardo che decide di tagliare fuori dall’inquadratura ciò che non collima con la narrazione che si intende diffondere. In questo senso nessun documentario può davvero essere “oggettivo”. Ma quando il punto di vista e lo sguardo sono quelli dei protagonisti stessi della narrazione, il rischio è che il racconto di vite indubbiamente interessanti e appassionanti si trasformi solamente in un altro genere di fiction.
Foto ufficio stampa Netflix
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Robbie Williams