Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Riduzione delle emissioni, impegni per la neutralità climatica, disinvestimento dalle fonti fossili di energia: come facciamo a misurarli? L’uso di piattaforme di Big data ci aiuta. Ecco come funzionano.
Sulla strada della sostenibilità, come si fa a capire quali sono gli Stati, le società, gli investitori più avanti e quelli più indietro? Chi sta rispettando gli impegni presi e chi invece no? La vastità di dati da analizzare per poter dare risposte è enorme, così pure la loro complessità. Avventurarsi nella lettura di rapporti che su questi temi spesso somigliano a tomi enciclopedici, per giunta di comprensione tutt’altro che immediata, appare ai più una mission impossible. Il problema è di più semplice soluzione per chi è nelle “stanze dei bottoni”, perché può richiedere e farsi spiegare da enti e istituzioni di ricerca tutti i dati di cui ha bisogno. La vita si fa più difficile per i comuni cittadini, specie per chi più che legittimamente è a digiuno di conoscenze specifiche su questi argomenti. A venire in soccorso sono i “tracker”, piattaforme online che, facendo leva su grandi basi di dati e complesse metodologie di analisi e valutazione, permettono di recuperare in pochi click le informazioni che si stanno cercando. Fornendole per giunta in forma sufficientemente comprensibile.
Ci sono tracker un po’ per tutti i gusti. Considerando che la partita della crisi climatica è di gran lunga la più urgente, e che proprio l’insufficiente azione sul clima è ciò su cui larga parte degli Stati sono criticati, un buon punto di partenza per scoprire l’universo dei tracker è il Climate Action Tracker (CAT), sviluppato in collaborazione da Climate Analytics e NewClimate Institute. L’obiettivo di CAT è monitorare l’azione dei governi sul clima in riferimento agli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Sotto la lente ci sono i governi di una quarantina di Stati, Unione europea compresa, complessivamente responsabili dell’85% delle emissioni globali di gas serra. Si valuta sia la bontà di impegni, obiettivi e politiche poste in essere dai singoli governi, sia se tutti insieme sono appunto “on track” nel percorso di riduzione delle emissioni (spoiler: non lo sono, come ha messo in evidenza lo State of Climate Action 2023 Report a cui CAT ha collaborato insieme ad altri). Il Climate Target Update Tracker offre un colpo d’occhio globale su quali sono i Paesi che stanno rafforzando i loro obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni (NDCs, Nationally Determined Contributions). Mentre sul Data Portal si possono effettuare ricerche, e fare confronti, per Paese, settore, indicatore. Ci sono poi i rapporti sui singoli Paesi, come quello sugli Emirati Arabi Uniti (UAE) divulgato a inizio COP28, ospitata appunto da UAE: “gravemente insufficiente”, cioè il gradino più basso, il giudizio complessivo. Ma nessun Paese è su una strada Paris Agreement-compatibile.
I sopra citati NDCs e i loro progressivi avanzamenti (il registro ufficiale è disponibile sul sito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, UNFCCC) sono fra i più “attenzionati” dai tracker. Ѐ il caso di Climate Watch, piattaforma online gestita dal World Resources Institute nell’ambito della NDC Partnership, che offre una nutrita serie di opzioni di visualizzazione e confronto di dati su scala globale: si può partire dall’esplorazione di tutti gli NDCs, ricercando per parola chiave o attraverso oltre 150 indicatori; c’è anche la possibilità di verificare l’allineamento fra gli obiettivi inseriti negli NDCs e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs, o Global Goals); è possibile inoltre dare un’occhiata al livello di emissioni storiche di gas serra per ogni Paese (circa il 60% è responsabilità di soli dieci Paesi, mentre i 100 Paesi con le emissioni più basse sono responsabili di solo il 3%) e accedere alla singole schede-Paese (qui quella dell’Italia) per verificare l’ammontare delle emissioni nazionali, i settori che più contribuiscono, il grado di vulnerabilità ai rischi climatici e molto altro. Da notare nella sezione Key Visualizations l’indicazione delle Climate Date Platforms attive su questi temi, più di 80.
Occhi puntati naturalmente anche sugli impegni net zero, oggi un po’ sulla bocca di tutti. Anche se il concetto stesso di net zero ha ricevuto critiche autorevoli e lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha dovuto costituire un Gruppo di lavoro per elaborare Linee guida per combattere il greenwashing sul net zero. Al riguardo è consigliata una visita al Net Zero Tracker (fra i promotori c’è l’Università di Oxford): valuta gli impegni e gli obiettivi net zero, e i conseguenti piani di transizione per raggiungerli, di oltre 4mila soggetti fra Stati, Regioni, città e società (le 2mila imprese quotate più grandi del mondo).
Mettere a disposizione i dati giusti, cioè corretti ed effettivi, che servono per prendere decisioni, e farlo in tempi rapidi, vale a dire il prima possibile, è l’obiettivo che ha mosso uno dei progetti più interessanti lanciati in questo campo: Climate TRACE, una “creatura” dell’ex-vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, che ne è fra i principali promotori. Presentato in vista della COP26 di Glasgow, Climate TRACE (che sta per Tracking Real-Time Atmospheric Carbon Emissions) utilizza dati satellitari, telerilevamento e intelligenza artificiale per monitorare e verificare le emissioni effettive prodotte dalle attività umane, con una granularità senza precedenti: l’aggiornamento reso disponibile durante la COP28 tiene conto delle emissioni prodotte da 352 milioni di asset nel mondo, cifra mirabolante che comprende ad esempio centrali elettriche, raffinerie, acciaierie, miniere, cementifici, discariche. I dati, liberamente consultabili attraverso una splendida mappa interattiva e variamente confrontabili, arrivano a stimare quanto i vari asset potrebbero contribuire al riscaldamento globale (GWP, Global Warming Potential) nell’arco di venti o cent’anni. Il verdetto di Climate TRACE sull’andamento delle emissioni di gas serra è che il mondo è lontanissimo dalla traiettoria su cui dovrebbe muoversi: tra 2021 e 2022 le emissioni sono aumentate dell’1,5%, tra 2015 (anno del Paris Agreement) e 2022 dell’8,5%.
E veniamo alla causa principale della crisi climatica, l’utilizzo dei combustibili fossili. Un riferimento imprescindibile è il Fossil fuel Policy Tracker, sviluppato in collaborazione dall’Università del Sussex e dall’iniziativa per un Trattato Internazionale di Non-Proliferazione delle fonti fossili (#FossilfuelTreaty). Monitora le politiche sulle fossili dei vari Paesi, suddivise in tre aree: moratorie, divieti, limitazioni alla produzione; riduzione dei sussidi; iniziative che promuovono il disinvestimento. Per chi cerca informazioni specifiche sul disinvestimento dalle fossili effettuato da investitori istituzionali, a offrirle è il Global fossil fuel divestment Commitments database, dove si può cercare per Paese, tipo di istituzione (le più presenti sono quelle religiose), tipologia di disinvestimento. Con la possibilità di accedere anche alla dichiarazione o alla notizia della decisione di aderire al disinvestimento da parte di una determinata istituzione, come nel caso dello storico voto con cui l’Irlanda nel 2017 divenne il primo Paese al mondo a disinvestire fondi pubblici dalle fossili. Un altro strumento indispensabile per investitori istituzionali che non vogliono più avere esposizione sul settore delle fossili (sono più di 230 quelli che lo utilizzano nel mondo) è GOGEL, la Global Oil & Gas Exit List, che offre informazioni sulle attività e in particolare i piani di espansione della produzione di più di 1.600 compagnie dell’oil&gas. Ma è utilissima anche la mappa di Carbon bombs, che traccia e descrive quali sono i maggiori – e ovviamente peggiori, dal punto di vista dell’impatto in termini di emissioni di gas serra – progetti di estrazione di fonti fossili al mondo, quali società li stanno portando avanti, quali istituzioni finanziarie li sostengono.
Disinvestimento e “bombe climatiche” a parte, gli ultimi anni hanno segnato un vero e proprio boom ai quattro angoli del pianeta nella produzione normativa e regolamentare sulla finanza sostenibile. A tenere traccia delle iniziative in quest’ambito è il Regulation Database di PRI (Principi per l’Investimento Responsabile): il loro numero cumulato sfiora ormai il migliaio e il database permette di effettuare ricerche ad esempio per tipo di ente che ha emanato la policy, ambito di applicazione, quadro normativo di riferimento, natura dell’outcome di sostenibilità ricercato (ad esempio contrasto al greenwashing o promozione di investimenti in energie rinnovabili). Assolutamente consigliata in materia di finanza sostenibile è anche una visita al database Sustainable Finance Policy Engagement di Influence Map: mostra quanto e come le 80 maggiori istituzioni finanziarie europee e statunitensi si muovono per, appunto, influenzare le policy sulla finanza sostenibile. In particolare, guarda caso, quelle sul clima.