Se Poe diventa una serie tv

Society 3.0


Se Poe diventa una serie tv

La caduta della casa degli Usher porta sullo schermo la prosa e le visioni dello scrittore americano ed è a tutti gli effetti una spietata messa in scena della crudeltà endemica del sistema di sopraffazione capitalistico.

Il compianto critico, saggista e filosofo inglese Mark Fisher ha scritto che «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Se mai un evento del genere dovesse accadere, tuttavia, per descriverlo adeguatamente ci vorrebbe probabilmente la visionarietà febbrile, cupa e a suo modo catartica di un Edgar Allan Poe. Chi meglio di lui ha fissato in immagini il concetto di caduta? Di un mondo marcescente fatto di ricchezza e privilegi, ottenuti quasi sempre sulla pelle di qualcun altro, che si sgretola anche fisicamente davanti ai nostri occhi in mezzo a fiamme, dolore e disperazione, inevitabile punizione per colpe innominabili? L’universo gotico di Poe e il tardo capitalismo del Ventiduesimo secolo che sopravvive a sé stesso nonostante la sua intima dannazione sembrano apparentemente lontani, ma poche opere di narrativa possono essere considerate metafore più azzeccate – anche se, evidentemente, in modo del tutto involontario da parte dell’autore – della possibile implosione di un sistema di dominio giunto al proprio limite quanto La caduta della casa degli Usher.

Il titolo di uno dei più memorabili racconti dello scrittore americano, pubblicato nel 1839, è oggi anche quello di una serie tv Netflix firmata da Mike Flanagan. Un’opera fosca e disturbante, ma allo stesso tempo infarcita di acre ironia, che è stata definita da un critico «una Succession in salsa horror». Anche qui al centro della vicenda c’è una ricchissima famiglia, guidata dal magnate dell’industria farmaceutica Roderick Usher (interpretato da un intenso Bruce Greenwood), ma di “successione” dinastica non se ne parla. Il motivo è semplice: al primo minuto della serie si scopre che i sei figli di Usher – tre maschi e tre femmine nati da cinque madri diverse, tutti ugualmente affetti da qualche forma di psicopatia e tutti moralmente ripugnanti – sono morti, uccisi in circostanze drammatiche. Il racconto à rebours, affidato in gran parte alle parole del capostipite degli Usher che decide di confessarsi al suo eterno avversario, il procuratore Auguste Daupin, svela man mano la trama degli avvenimenti che hanno prima fondato la fortuna di Roderick e della luciferina sorella gemella Madeline, e poi portato alla loro rovina.

Una presenza costante

La “casa degli Usher” è un impero industriale sviluppatosi grazie alla diffusione di un antidolorifico a base di oppioidi che ha distrutto la vita di centinaia di migliaia di persone, a violazioni continue delle leggi, alla prevaricazione e a – poteva mancare? – una orribile colpa originaria, quella che sigla il patto faustiano degli Usher (la perdita dell’innocenza e delle proprie anime in cambio di successo e ricchezza) che in qualche modo spiegherà alla fine anche il terribile contrappasso. Non inoltrandosi ulteriormente nella trama per non incappare in spoiler, torniamo al rapporto con l’opera di Edgar Allan Poe. Benché la storia non sia esattamente quella del racconto, al di là della trasposizione in un’epoca diversa, la presenza dello scrittore è percepibile in ogni momento. Dai titoli dei singoli episodi (Il cuore rivelatore, Il gatto nero, La maschera della morte rossa, Il corvo e così via, tutti giustificati dal meccanismo degli avvenimenti) ai nomi e ai caratteri dei personaggi (abbiamo Morelle, Lenore, Tamerlane, Gordon Pym…), passando per citazioni a volte dirette e a volte inserite come ammiccanti “easter egg” (un esempio: Camille, una delle figlie Usher, si rivolge rabbiosamente al suo giovane assistente Toby con un “Toby, damn it!” che echeggia il Toby Dammit protagonista di un racconto di Poe portato sugli schermi da Federico Fellini nel 1968).

Ma non si tratta soltanto di un divertissement finalizzato a rendere pop e post-moderna la narrativa dell’autore di Boston. C’è infatti un legame sostanziale che unisce la prosa e le visioni di Poe a quella che è a tutti gli effetti una spietata messa in scena della crudeltà endemica del sistema di sopraffazione capitalistico. Al cuore della serie di Flanagan, così come di tanti scritti di Poe, c’è il concetto di “colpa”, inesorabilmente connesso a quello di “castigo”. Senza espiazione né redenzione, perché oltre un certo limite di malvagità non c’è modo di espiare e nulla può redimere. Gli Usher sono irrecuperabili, al pari di un sistema economico e sociale che conserva sé stesso grazie allo sfruttamento, al disprezzo delle regole e all’amoralità assoluta.

Humour nero

Se c’è un intento “politico” è comunque sfumato da uno humour nerissimo che rappresenta anch’esso un omaggio a Poe. La satira su alcuni aspetti del mondo contemporaneo è talmente evidente da risultare a tratti – unico limite della serie – forse un po’ troppo schematica. I sei figli di Roderick Usher incarnano archetipi sociali e umani facili da riconoscere. C’è l’influencer, l’edonista sfrenato, la PR che raccoglie dossier su chiunque (famigliari compresi) per poi ricattarli, il primogenito imbelle, la scienziata vittima della propria hybris, il creatore di videogiochi iper-connesso con tutto tranne che con il proprio equilibrio mentale. Tutti e tutte drogati all’ultimo stadio, di sostanze diverse ma soprattutto del senso di impunità che solo la ricchezza – per di più ereditata – può creare. Ne pagheranno le conseguenze, e tutto sommato queto è uno dei rari casi in cui il moralismo sottesa a una storia non risulta così fastidioso.

Qualche lampo di luce

In tutta questa aura dark, esaltata anche dalle scenografie e dagli arredi – le abitazioni dei protagonisti sono tanto lussuose quanto angoscianti e claustrofobiche nella loro irrealtà hi-tech – non manca tuttavia qualche lampo di luce. Lo troviamo in quei pochi personaggi dotati di un compasso morale: la prima moglie di Roderick, la nipote che ne ha ereditato il carattere integerrimo, il procuratore che ha speso la vita per portare finalmente gli Usher al banco degli imputati e ottenere giustizia.

E anche in quello che forse è il personaggio più singolare dell’intera vicenda: Juno, l’ultima moglie di Roderick Usher, una giovane ex eroinomane tuttora dipendente proprio dall’antidolorifico brevettato dalla perfida famiglia. L’attrice che la interpreta, l’irlandese Ruth Codd, ha una storia che da sola meriterebbe una serie tutta sua. A 15 anni, in seguito a un incidente occorsole mentre giocava a pallone, ha iniziato un calvario di operazioni conclusosi con l’amputazione della gamba. Durante la pandemia da COVID-19 ha perso il suo impiego di make-up artist e si è reinventata star di TikTok, dove con molta grazia e auto-ironia ha raccontato la quotidianità e i problemi delle persone disabili. Notata da Mike Flanagan, è stata invitata a fare un provino per la sua serie precedente, The Midnight Club. Senza avere alcuna esperienza da attrice, ne è diventata la star ed è stata riconfermata per La caduta della casa degli Usher. In un cast di eccellente livello, che tra l’altro vede la presenza di alcune vecchie glorie cult del cinema anni 80/90 (da Henry Thomas, l’Elliott di E.T., a Mary McDonnell, la squaw Alzata-con-pugno di Balla coi lupi, per tacere di un irriconoscibile Mark Hammill/Luke Skywalker), Ruth Codd brilla per innocenza e genuinità. Incarnando forse l’alternativa che una nuova generazione può opporre al Male. Quello letterario ma anche quello reale, che domina il mondo e che spesso non appare come tale.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​