Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Fermare la guerra per salvare il clima. Quali sono i danni ambientali provocati dai conflitti e come incidono sulla sostenibilità.
Nel poligono militare di Teulada, in Sardegna, dal 2008 al 2016 sono stati sparati 860mila colpi di addestramento, con 11.875 missili, pari a 556 tonnellate di materiale bellico: lo ha accertato, insieme allo stato di devastazione del territorio denominato “penisola Delta”, la Procura di Cagliari. A gennaio del prossimo anno si aprirà il processo per disastro colposo a cinque generali dell’esercito italiano, ex Capi di Stato maggiore. L’area, per lo stato dell’inquinamento di terreno e falde acquifere, è ritenuta irrecuperabile. Il processo dirà se le morti di civili e militari per patologie tumorali sono ricollegabili agli effetti delle esercitazioni militari. Intanto a maggio di quest’anno, anche per via della guerra in Ucraina, nell’area si sono svolte esercitazioni militari della Nato.
A settembre 2022 il gasdotto Nord stream attraverso il quale il gas estratto in territorio russo arrivava in Germania è esploso nel Mar Baltico, come ampiamente riportato dalle cronache. Le stime sul metano, gas fossile climalterante, fuoriuscito in atmosfera in seguito all’esplosione sono state nell’ordine dei milioni di tonnellate di CO2 equivalenti: l’Agenzia federale tedesca per l’ambiente ha parlato di 7,5 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti, pari all’1% delle emissioni di CO2 della Germania. Si tratta inoltre di un volume di emissioni che sarà difficile attribuire a un Paese o a un altro dato che in buona parte il gas si è disperso in acque internazionali, al di fuori dunque dei radar delle contabilità nazionali delle emissioni climalteranti. Discorso simile per l’enorme chiazza di petrolio, ma anche di oli industriali e sostanze chimiche, che si è diretta verso il Mar Nero in conseguenza della distruzione e del crollo della diga di Nova Kakhovka: le stime del ministro dell’Ambiente dell’Ucraina erano di 150 tonnellate di fluidi. C’è chi in riferimento a questi eventi ha parlato senza mezzi termini di crimine ambientale e di ecocidio.
E ancora: gli aerei caccia F-35A consumano circa 5.600 litri di carburante all’ora e stanno progressivamente sostituendo gli F-12 che ne consumavano “solo” 3.500 litri l’ora, mentre gli elicotteri da combattimento ne consumano 500 l’ora. Le emissioni annuali di gas serra attribuibili al solo dipartimento della Difesa statunitense si stima equivalgano a quelle di 140 nazioni. L’impronta di carbonio militare del solo Regno Unito si stima ammonti a 11 milioni di tonnellate di CO2 equivalente l’anno, 24,8 quelle dell’intera Unione europea, mentre a livello mondiale forze armate e industria delle armi qualche anno fa si è stimato che potrebbero valere intorno al 5% delle emissioni globali di gas serra. Tornando un po’ più indietro nel tempo, al 1991, gli incendi petroliferi durante la guerra del Golfo si stima abbiano impattato sulle emissioni globali di CO2 derivanti da combustibili fossili quell’anno per oltre il 2%.
Anche senza considerare l’incubo di gran lunga peggiore di tutti, quello dell’uso di ordigni nucleari, si potrebbe continuare. Sono solo alcuni esempi del devastante impatto ambientale e climatico causato da attività militari, eserciti e in particolare dalla guerra. Un impatto difficile da quantificare, specie in riferimento al clima e ai conflitti, come spiega il Conflict and Environment Observatory (che distingue tra emissioni dirette e indirette derivanti dai conflitti). Anche perché nei trattati internazionali sul clima la contabilizzazione delle emissioni legate al settore militare non è obbligatoria, ma lasciata alla libertà degli Stati. Se le guerre, poi, hanno un impatto enormemente negativo su ambiente e clima, è proprio la continua e sempre maggiore devastazione dell’ambiente a rappresentare una delle cause principali di molte guerre: non a caso si parla sempre più di guerre climatiche e in particolare di guerre per l’acqua. Un circolo vizioso, insomma.
L’impatto della guerra in Ucraina
Verso la fine dell’anno scorso Climate Focus, col supporto fra gli altri del ministero dell’Ambiente ucraino, ha tentato una prima quantificazione dell’impatto sul clima della guerra in Ucraina, a circa sette mesi dall’inizio del conflitto: nel complesso il rapporto stimava un volume di emissioni di gas serra di circa 100 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, circa un terzo delle emissioni annuali dell’Italia. Attribuiva inoltre la fetta più grossa delle emissioni all’attività legata alla futura ricostruzione degli edifici e delle infrastrutture distrutti nel corso della guerra. Al secondo posto gi incendi, al terzo le operazioni belliche vere e proprie.
Più di recente, a febbraio di quest’anno, è stata Greenpeace con la Ong ucraina Ecoaction a proporre una mappa dei danni ambientali provocati dalla guerra in Ucraina (utilizzando allo scopo, come nello studio di Climate Focus, anche dati satellitari). Si calcola che circa un quinto delle aree protette e tre milioni di ettari di foreste siano stati danneggiati. A produrre questi danni è una combinazione di fattori: incendi, inquinamento di aria, acqua, suolo e habitat, contaminazioni (anche delle catene alimentari) da bombardamenti, composti chimici rilasciati in atmosfera da esplosioni, piogge acide. Lo studio lanciava anche la richiesta di istituire un fondo specificamente dedicato al ripristino dell’ambiente.
In vista della COP27 di Sharm el-Sheikh, un altro rapporto (Climate Collateral: How military spending accelerates climate breakdown) aveva allargato lo spettro d’indagine dalla contingenza del conflitto in Ucraina alle spese militari in generale. Spese militari che, proprio per via della guerra in Ucraina, secondo quanto reso noto ad aprile dall’autorevole istituto Sipri sono in pieno boom e nel 2022 hanno tristemente raggiunto un nuovo record storico: 2.240 miliardi di dollari. Si resta davvero senza parole se si confronta questa cifra astronomica con quella molto più modesta, 100 miliardi di dollari l’anno – tra l’altro mai raggiunta -, che sin dalla COP15 del 2009 a Copenhagen i Paesi ricchi (quelli europei in testa, che sono proprio quelli che più hanno aumentato le spese militari nell’ultimo anno) si sono impegnati a mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo per accompagnarli nel percorso della transizione ecologica. Tra 2013 e 2021, dice il rapporto, le spese militari dei Paesi più ricchi del mondo hanno toccato 9.450 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, gli stessi Paesi hanno messo a disposizione in finanziamenti per il clima meno di 250 miliardi di dollari: quasi 40 volte meno. Il rapporto Climate Collateral spiega anche che le spese militari hanno un impatto profondo e duraturo sulla capacità di affrontare la crisi climatica, perché ogni dollaro indirizzato in tal senso ha un doppio effetto negativo: non solo, come detto, aumenta le emissioni di gas climalteranti, ma distrae anche risorse finanziarie dalla lotta alla crisi climatica.
Per tutti questi motivi è cresciuta fortemente l’attenzione sulla necessità di fermare la guerra, tutte le guerre, anche per (provare a) fermare la crisi climatica. Si parla al riguardo di disarmo climatico. Un’espressione che ha dato il titolo a un incontro che si è tenuto lo scorso ottobre a Trento, promosso fra gli altri dalla Rete Italiana Pace e Disarmo e dall’Agenzia provinciale di Trento per la protezione dell’ambiente e Trentino, e che viene usata per significare l’analisi e la decostruzione delle connessioni tra l’emergenza climatica da una parte e le strutture e i sistemi militari dall’altra. In altre parole: senza pace non c’è giustizia climatica possibile.
Già nel 1992 la Dichiarazione di Rio lo diceva chiaramente: «La guerra esercita un’azione intrinsecamente distruttiva sullo sviluppo sostenibile». Diceva anche: «Gli Stati rispetteranno il diritto internazionale relativo alla protezione dell’ambiente in tempi di conflitto armato e coopereranno al suo progressivo sviluppo secondo necessità». Un’altra promessa che gli Stati non hanno mantenuto. Una delle tante.