Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Dopo la dichiarazione dei ministri competenti di 42 Stati dell’Unione del Mediterraneo ora ci sono obiettivi chiari per salvare un patrimonio che ha 7000 anni di storia e valori condivisi.
Di fronte ai crescenti impatti del cambiamento climatico il Mediterraneo, già fragilizzato dall’ipersfruttamento e da una situazione ambientale nel complesso disastrosa, potrebbe esplodere. Il passo è breve dal collasso ambientale alla completa destabilizzazione della regione – povertà, conflitti, migrazioni – e non sarebbe solo un problema di chi, attorno al Mediterraneo ci vive: sulla nostra regione convergono infatti tre continenti e un groviglio delicatissimo di interessi economici e geopolitici globali. Ma il Mediterraneo come sfida a sé entro il più vasto problema climatico globale non era mai emerso a livello politico: di fatto, il Mediterraneo esiste come realtà storica, sociale, economica, e come ecosistema unitario; ma non esiste né come soggetto né come oggetto politico; basti pensare che ai negoziati ONU, sul clima o sulla biodiversità ad esempio, la regione mediterranea è rappresentata da tre diversi gruppi regionali che spesso si oppongono. Ma questo era vero fino a ieri, perché due passi importanti sono stati compiuti quest’anno grazie all’Unione per il Mediterraneo (UpM), l’organizzazione intergovernativa che raduna tutti gli Stati dell’Unione Europea assieme agli altri Stati che si affacciano sul nostro mare: il 15 giugno è stata adottata una Dichiarazione sulla transazione energetica e il 4 ottobre una su ambiente e clima da parte dei Ministri competenti dei 42 Stati dell’UpM. “Dichiarazione” suona “parole al vento”, ma si tratta di linee d’azione concordate – cosa non facile perché molti interessi confliggono – che possono ora essere applicate in un’ottica che unisce una comunità che ha 7000 anni di storia e interessi condivisi.
Il problema climatico Mediterraneo obbiettivamente esiste come capitolo a parte. Nell’inerzia, o peggio nella competizione esacerbata da risorse in diminuzione, su questo scacchiere il rischio sarebbe massimo. Un recente studio (Cheng, L., Abraham, J., Trenberth, K.E. et al. Upper Ocean Temperatures Hit Record High in 2020. Adv. Atmos. Sci. (2021) ammonisce sull’accelerazione del riscaldamento oceanico, che porta catastrofi naturali sulla terra ferma, in aumento per le temperature oceaniche più alte registrate in 65 anni. Ma in questo quadro globalmente preoccupante, il pericolo si concentra a casa nostra. Tra tutte le aree il Mediterraneo è il bacino che evidenzia il tasso di riscaldamento maggiore negli ultimi anni – confermando peraltro quanto già riscontrato nel Rapporto sullo Stato dell’Oceano del Servizio marino europeo. Tali risultati si intersecano con quelli del recente Rapporto MAR 1 del MedECC (il network che riunisce gli esperti mediterranei sui cambiamenti climatici e ambientali). Esso considera la zona mediterranea nelle sue varie dimensioni ed evidenzia che – mentre le acque del nostro mare sono quelle che si scaldano più rapidamente – la regione nel suo complesso è la seconda al mondo per rapidità di progressione del riscaldamento.
Nel Mediterraneo la temperatura media rispetto all’era pre industriale è infatti aumentata di 1,5 C e il riscaldamento procede del 20% più rapidamente rispetto alla media globale, con il pericolo di aumenti fino a 2,2 C nel 2040, e 3,8 C nel 2100, catastrofici per una popolazione mediterranea nel frattempo cresciuta esponenzialmente. Sarebbero molte le conseguenze destabilizzanti. Si prevede, ad esempio, che il livello del nostro mare possa aumentare di 20 centimetri entro il 2050, che possono sembrare pochi ma salinizzerebbero il delta del Nilo, sconvolgendo la sussistenza di milioni di persone; oppure un incremento della popolazione in scarsità idrica fino a 250 milioni di persone, e il fatto che un mare più caldo fa da volano di lungo termine a un’atmosfera più calda significa che il problema ci accompagnerà a lungo e andrà aggravandosi anche nei più idilliaci e virtuosi scenari di contrasto alle emissioni di gas serra.
Ma non basta. L’area euromediterranea rappresenta la somma di un’antroposfera e di un’ecosfera regionale unitaria, interconnessa, interdipendente: fragile perché pronta a sperimentare crisi regionali che crescono su fragilità locali che ci sono sempre state ma ora stanno crescendo. Asimmetrie profonde nella distribuzione di reddito e risorse fanno sì che anche la parte della regione mediterranea capace di resistere a diverse pressioni è sempre più messa a rischio dal divario con le altre parti più povere: un puzzle di apparenti forze e reali debolezze descritto dal panorama degli scambi commerciali che, su scala regionale, avvengono al 90% fra Paesi della sponda Nord, per il 9% fra Nord e Sud, mentre solo l’1% interviene fra Paesi della sponda meridionale. Questo tipo di divario, sommato a dinamiche demografiche in progressiva divaricazione fra Nord e Sud, rende difficile prevenire la scintilla di dinamiche destabilizzanti su vasta scala: troppe sacche di debolezza ove può scoccare la scintilla.
Anche assumendo tali pericolose interconnessioni, sarebbe riduttivo considerare il problema solo come una somma di aree o fattori di rischio distinti. Nel caso dei due mondi a cui apparteniamo come Italia – quello europeo continentale e quello del bacino mediterraneo – è in gioco una posta più basilare: l’identità e l’unità dell’Europa e una relazione costruttiva entro il più naturale ambito di internazionalizzazione dell’economia italiana, la sponda Sud, e oltre essa l’Africa. A guardare il planisfero ci si accorge che l’idea di Europa – come continente a sé stante – rappresenta un’anomalia. Usando i criteri di delimitazione dei continenti applicati per tutti gli altri, noi non dovremmo esistere: siamo solo una piccola appendice dell’Asia. Eppure, continuiamo a sentirci un continente a parte. Cosa ci distingue? Una certa unità culturale, persino fisionomica, un senso di comunità nella diversità. Pochi si interrogano sulle radici di queste unicità che non si radicano in barriere geofisiche, ma qualcuno l’ha fatto: a cominciare da Montesquieu che vedeva l’identità europea come un prodotto dell’eccezione climatica che ha benedetto l’Europa dalla fine dell’ultima glaciazione, circa 10 mila anni fa.
Significa che il clima dell’Europa ha giocato un ruolo determinante nel forgiare la nostra identità e nel definire i nostri interessi. Lo stesso vale per la sponda Sud del mediterraneo che, con proprie marcate dinamiche identitarie, è Africa senza realmente esserlo. Anche la sponda Sud del mediterraneo ha beneficiato di una sua favorevole eccezionalità climatica che ne ha contribuito a distinguerne l’identità dal resto del continente. Queste due eccezioni favorevoli sono interconnesse dall’azione stabilizzante del mare che condividiamo, e hanno creato le condizioni della rivoluzione agricola: la maggior strutturazione sociale da cui ha preso le mosse l’organizzazione umana in campagne coltivate e centri urbani che ancora è la nostra. È successo attorno al Mediterraneo – fra Europa, Anatolia, Fenicia – perché un clima stabile e prevedibile è essenziale per pianificare i raccolti. Senonché, questo clima sta cambiando. L’inerzia stabilizzante di un vasto bacino come il Mediterraneo non funziona più se le sue acque immagazzinano e rilasciano nel sistema dosi crescenti di energia che si trasforma in caos. Non è solo una questione di venti e piogge e nemmeno dottamente antropologica: si tratta di economia, commercio, e geopolitica. Le basi profonde dei nostri equilibri diventano instabili e si profila un inasprimento distruttivo della conflittualità se ci poniamo in crescente competizione di fronte alle nuove scarsità e incertezze.
Ad esempio, sono a rischio le ragioni d’unità dell’Europa. Con l’avanzare verso Nord degli anticicloni africani, un clima che prima unificava il continente oggi lo taglia in due zone climatiche differenti e ciò spinge verso la divaricazione degli interessi che ci uniscono. Così, il riscaldamento dell’Artico e il restringimento dei ghiacci stanno liberando alcune rotte commerciali marittime polari – i mitici passaggi a Nord Est e a Nord Ovest – che rischiano di privare i nostri porti e il Canale di Suez di traffico. Oppure, dovremo fare i conti con la migrazione a Nord di alcuni vitigni che per noi sono identitari e una rilevante fonte di proventi. Se queste e altre mutazioni non sono poste sotto controllo consapevole, un nuovo clima che spezza l’Europa può creare due gruppi con interessi divergenti. Ma non ci sono solo le sottrazioni, ci sono anche le aggiunte. Qualcosa perdiamo perché migra a Nord, ma qualcosa guadagniamo in provenienza dal Sud, condividendola con altri popoli in una nuova comunità di interessi. Ad esempio, il settore forestale sta sperimentando un’integrazione e un’intensificazione della collaborazione fra le due sponde del Mediterraneo. C’è sempre stata una cooperazione forestale globale per l’ecosistema planetario ma, in questo nuovo club panmediterraneo, si sta intensificando poiché la vegetazione originaria della sponda meridionale del Mare Nostrum è l’unica che potrà permanere produttiva sulla sponda Nord entro pochi anni e quindi salvare la funzionalità di intere economie nazionali.
E come rispondono a questa consapevolezza le due Dichiarazioni Ministeriali, sull’energia e su ambiente e clima? In molti modi concreti, e se si cercano le linee d’azione puntuali basta leggerle. Ma è importante non smarrirsi nelle questioni puntuali, perdendo di vista l’orizzonte generale. Le due dichiarazioni applicano un principio nuovo: io ho bisogno di te e per questo ho bisogno che tu stia bene. Non è una scelta ideologica bensì ciò che suggeriscono scienza ed economia, quando evidenziano come nessuno, neanche i più ricchi nell’area euromediterranea, ha da solo i mezzi per far fronte a cambiamenti di tale vastità e velocità. La stessa UE, per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, ha bisogno del potenziale solare della sponda Sud e di quello eolico dei Balcani. Così come – oltrepassando un litigioso capitolo negoziale sul technology transfer visto come dono dei ricchi ai poveri – dobbiamo capire che il Sud del Mediterraneo detiene 6000 anni di tecnologia nella gestione di territori aridi quali presto saranno i Paesi meridionali dell’UE. Se ne diveniamo consapevoli, dobbiamo lanciarci a integrare le economie e interconnetterle, spingere l’Unione europea e dispiegare fondi di vicinato, portare le imprese a incontrarsi, cercare le sinergie. È necessario per il clima, ma finisce per risolvere anche le asimmetrie regionali che da sempre generano conflitti e ancor più ne creerebbero col clima in crisi.