La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Il fenomeno della trasformazione delle periferie sta modificando interi quartieri metropolitani. Il sociologo Giovanni Semi racconta a Changes come il modello italiano sia diverso dal resto del mondo e come ha cambiato i consumi.
Se si passeggia per le strade del quartiere Isola, a Milano Nord, poco lontano dalla Stazione Centrale e da Porta Garibaldi, lo sguardo ha a disposizione un’intera gallery di fotografie da archiviare con il titolo: Gentrification. Il quartiere nato e cresciuto tra la fine dell’800 e gli inizi del 900 come angolo della città riservato alla classe operaia è diventato negli ultimi dieci anni un villaggio trendy dove i locali alla moda fioriscono e resistono alle tendenze, la multiculturalità è un valore da mostrare con orgoglio e il bien vivre sembra alla portata di tutti. Isola a Milano è uno dei simboli della gentrification all’italiana, il fenomeno catalogato per la prima volta dalla sociologa inglese Ruth Glass nel 1964 per descrivere i movimenti verso la città della “gentry”, la piccola nobiltà di campagna inglese. La gentrification comincia ad essere visibile a tutti coloro che abitano nelle città, almeno in quelle di grandi dimensioni come Milano, Roma, Torino e Genova. Così interi quartieri che un tempo erano popolari diventano territorio di elezione della classe borghese e cambiano totalmente il loro aspetto e, allo stesso tempo, le abitudini sociali. «Questo fenomeno è un bene perché indica che le città sono tornate ad essere attori economici importanti e ad attirare la fascia della popolazione che possiede capitale e cultura», ha detto Giovanni Semi, docente di Sociologia del Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino, che nel suo ultimo libro Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (Il Mulino, 2015) mette in luce la particolarità del modello italiano. «A differenza di quanto accaduto in America, l’italiano non ha mai perso davvero interesse nel vivere in centro città», ha sottolineato Semi. «Non è stato così, per esempio, a New York: la Manhattan degli anni ’70 e ’80 non era il luogo dove essere come oggi». Nel nostro Paese non abbiamo avuto fenomeni della portata anglosassone, ma ci sono punti in comune nel meccanismo che attiva la gentrification. «Basta pensare alla Milano degli anni 90, quella della deindustrializzazione e dell’eroina, quando la città era chiusa, e basta ricordare Torino e Genova, così legate al cambiamento industriale del Paese» ha sottolineato Semi. «Non erano il posto più bello dove vivere, oggi lo sono, ognuna a suo modo».
Questo non vuol dire che la “gentrificazione” delle città sia solo un fatto positivo. Perché è vero che vivere a Milano e Torino oggi è molto meglio di venti anni fa, ma molto più di venti anni fa conta il tenore di vita che si può sostenere. «È il lato oscuro della trasformazione: il miglioramento delle condizioni della città è direttamente proporzionale al numero delle persone che può accedere alle nuove condizioni di vita, e questo numero si restringe all’aumentare della bellezza», ha detto Semi. La città, quindi, diventa più bella ma non è detto che sia più accessibile. In che modo? Si generano delle piccole spirali di allontanamento della popolazione che non è ammessa ai nuovi servizi e chi resta nei quartieri “gentrificati” deve fare bene i conti per mantenere il livello di vita a cui aspira. Non è un caso che molti quartieri gentrificati sono diventati vittime del loro stesso successo. I primi “nuovi abitanti” dei quartieri, gli artisti, sono stati spesso i primi a lasciarli. La ragione? Le nuovi costruzioni, l’aumento dei residenti e dei negozi, e la scomparsa di quelli vecchi, hanno allontanato i quartieri gentrificati dall’idea originale.
Ogni centro urbano, comunque, fa storia a sé perché parte da una base economica differente. Tra gli esempi più famosi di quartieri gentrificati ci sono, Williamsburg, a Brooklyn (New York), Shoreditch a Londra, Pigalle a Parigi, Kreuzberg a Berlino, Isola a Milano, Pigneto a Roma, il Quadrilatero Romano a Torino, il Porto e i vicoli di Genova. In comune hanno l’ascesa dei prezzi delle case che in Italia ha avuto ricadute diverse rispetto all’estero a causa del rapporto che hanno gli italiani con la proprietà degli immobili. È noto, infatti, che l’80% degli italiani vive in case di proprietà, anche se questa percentuale sta scendendo negli ultimi anni, mentre i numeri sono ribaltati se si guarda, per esempio agli Stati Uniti.
Il primo effetto è l’aumento degli affitti, che spesso non è sostenibile dagli abitanti storici, che o si trasferiscono o vengono sfrattati. Chi possiede una casa, invece, ha la possibilità di venderla a un prezzo molto alto. In questo modo si trasforma l’identità del quartiere, urbanistica compresa. Per questo la gentrificazione ha creato delle diseconomie che derivano anche dalla composizione immobiliare della città. «Roma in questo senso è emblematica: ha una base economica differente fatta di un patrimonio immobiliare enorme in capo ad enti pubblici o a grandi famiglie», ha sottolineato Semi. «Il peso della città pubblica ha generato delle diseconomie in una città con delle urbanizzazioni peculiari come il baraccamento negli anni 30 e 50 prima, le borgate, e la cementificazione dell’agro romano con la nascita, per esempio di Tor Bella Monaca». La gentrificazione nella Capitale italiana ha avuto vita dura con due esempi chiave: il Pigneto e Monti. Nel primo caso, secondo l’analisi di Semi, si può parlare di gentrificazione classica, nel secondo invece la speculazione edilizia ha avuto il sopravvento, con i prezzi delle case triplicati nel giro di pochi anni.
Dal punto di vista sociale, la gentrificazione tende a escludere invece di includere. «Per farne parte bisogna essere in sintonia con i consumi culturali di elite prevalenti», ha detto Semi. Quali sono questi consumi? Quelli dei Millennials votati all’alimentazione bio, alla mobilità eco sostenibile e al cosiddetto “learning by doing”, imparare mentre si fanno le cose, all’inglese come lingua ufficiale per tutto. Basta fare una passeggiata per i quartieri simbolo della gentrificazione.