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Come per il “bio” su un alimento, presto anche il prodotto finanziario sarà accompagnato da un’etichetta Sri (socially responsible investing).
Come per il “bio” su un alimento, presto anche il prodotto finanziario sarà accompagnato da un’etichetta Sri (socially responsible investing).
Le raccomandazioni del Final Report dell’High level expert group (Hleg) sulla finanza sostenibile, fanno prevedere che i tempi non saranno lunghi per l’istituzione di un’etichetta Sri per i prodotti finanziari. L’autorevolezza e, soprattutto, l’autorità che sembra essere stata assegnata al Hleg dalla Commissione europea (che lo ha istituito nel 2016 dopo gli Sdgs e Cop21), lasciano intendere che la serie dei consigli si tradurrà presto in qualcosa di assai operativo. E di rivoluzionario, per impatto di compliance normativa e di ribaltamento culturale.
L’aspetto più evidente, appunto, è quello delle etichette. Si prospetta una pioggia di label in arrivo. Sui fondi di investimento il report parla di «una disclosure che dovrebbe essere richiesta per i fondi (inclusi quelli non europei ma operanti in Europa) che rappresentino oltre i 500 milioni di asset in gestione (comprese tutte le classi)» e di una «green label da sviluppare entro la fine del 2018 o all’inizio del 2019. In uno stage successivo, la Commissione dovrebbe inoltre esaminare lo sviluppo di una social label europea».
Per le obbligazioni, l’Hleg suggerisce che già nel 2018 venga costituito un Green Bonds Technical Committee cui affidare la “governance” dei green bond europei. In particolare, il Committee dovrà definire con urgenza, cioè sempre nel 2018, un European Standard per l’individuazione delle obbligazioni verdi. In parallelo, dovrà occuparsi della spinosa questione dei provider delle certificazioni terze (gli external review providers) per i quali sarà necessario definire caratteristiche e codici di professionalità e comportamento uniformi, nonché un modello di registrazione e monitoraggio. A questo punto, il comitato dovrà occuparsi di introdurre una label che sia prima di tutto green, la quale poi possa servire da standard di riferimento anche per i social e sustainable bond, nonché per green, social e sustainable loans.
L’intervento a gamba tesa di Bruxelles arriva per cercare di mettere ordine in un meccanismo che rischia di andare fuori controllo. Il timore è che il fenomeno delle label proceda in maniera simmetrica all’esplodere del “tutti-lo-fanno-Sri” esaminato in una precedente puntata di questo ciclo sulla finanza responsabile. A fronte, insomma, di un alzarsi di bandiere sedicenti Sri (o Esg), ha cominciato a moltiplicarsi l’esigenza di avere qualcuno che certifichi. Il problema è che la complessità della finanza responsabile rende assolutamente non immediato comprendere la qualità del certificatore.
Si pensi a quante siano le etichette più o meno autorevoli. Si va da quelle, per esempio, di provider privati, spesso associazioni cosiddette non governative o non profit. Come RepRisk, specializzata primariamente nell’assegnare etichette “di rischio”, ossia nello stilare classifiche di esposizione verso le tematiche sostenibili. O come la Nordic Swan Ecolabel, etichetta appartenente a una organizzazione non profit fondata nel 1989 dal Nordic Council of Minister, impegnata oggi nella certificazione di fondi di investimenti che rispettano i criteri sostenibili. Ma sono in aumento anche le attività da parte di agenzie governative o para-governative: si pensi alla Luxembourg Finance Labelling Agency (LuxFLAG), nata per altre tipologie di prodotti, che ha lanciato una label sui green bond; e, soprattutto, all’iniziativa francese, la label Isr, istituita con un decreto dal Ministero delle Finanze francese nel 2016, con l’obiettivo di far conoscere gli investimenti Sri nel Paese.
Queste etichette si vanno ad aggiungere a label più o meno ufficiali nel mondo finanziario, come possono essere quelle della Green Bond Initiative. O le certificazioni di appartenenza all’Unpri delle nazioni unite. La sovrapposizione si crea anche con gli indici di sostenibilità (ovvero ai panieri che raccolgono asset con un certo grado di sostenibilità) o con i rating ESG, ovvero, quegli score assegnati da un gruppo (invero, non troppo vasto) di agenzie specializzate nell’analisi dei fattori environmental, social e governance.
Un proliferare di etichette che, deve aver pensato Bruxelles, ha però bisogno di una regolata, almeno quanto il proliferare dei sedicenti prodotti Sri. Da qui la volontà di creare una etichetta standard per il Continente, che possa garantire chiarezza, autorevolezza e, soprattutto, completa indipendenza.
Alla fine, la vera sfida sarà quella di intendersi su “cosa” davvero c’è dentro un prodotto finanziario. E su come quel “cosa” viene gestito (per esempio, su come un gestore vota nell’assemblea dell’azienda in cui investe). Da qui, deriva l’importanza di una forte riconnessione della finanza con l’economia reale. Questo aspetto è e sarà l’anello che chiude il cerchio. E che chiuderà questa serie di articoli, nella prossima puntata.