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Il tema dell’integrazione della sostenibilità condizionerà il business delle aziende nei prossimi 3 anni. E la questione reputazionale diventa elemento core per l’impresa.
La sostenibilità aziendale (come il bilancio integrato) è un gioco tutt’altro che semplice da vincere. Anzi, è un gioco assai difficile anche da condurre. Secondo uno studio Bain & Company del novembre 2016, realizzato coinvolgendo oltre 300 aziende, c’è un rapporto allarmante tra gli obiettivi preposti a trasformazioni di Csr, e i traguardi effettivamente raggiunti: appena il 2%. Una cifra estremamente inferiore alla media del 12% raggiunta dall’insieme dei processi di trasformazione delle aziende.
Questo sconfortante risultato, secondo l’analisi, è dovuto principalmente all’incapacità di “integrare” davvero le politiche di Csr nelle strategie aziendali, cioè all’incapacità di rendere partecipi management e struttura operativa dell’importanza di un nuovo posizionamento. Il “corpo” dell’azienda resta legato a tradizionali obiettivi di business, percependo la sostenibilità unicamente come una questione reputazionale, separata dalle attività core dell’impresa, se non addirittura frenante le attività stesse.
La strada per “integrare” la sostenibilità all’interno dell’azienda, e quindi per tradurla in un bilancio integrato, passa da leve che la impongano come strumento necessario per creare valore. Queste leve vengono azionate dal mercato. Ma, ancor prima, vengono azionate dagli investitori. Sono questi, infatti, i primi fautori dell’adozione del bilancio integrato da parte delle aziende.
I dati che dimostrano queste pressioni non mancano. Tra i casi più eclatanti degli ultimi anni, le missive pubbliche inviate da Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, uno dei simboli della finanza mondiale, ai vertici delle aziende partecipate, con la richiesta esplicita di maggiore trasparenza e condivisione sulle variabili non financial (quelle del bilancio integrato), ritenute fattore chiave per una crescita sostenibile nel lungo periodo. Le richieste di Fink sono l’emblema di una richiesta di “integrazione” talmente forte, da risultare ancora in larga parte insoddisfatta.
In una ricerca presentata da Sodali a inizio 2016, nell’ambito del progetto italiano Integrated Governance Index, emergeva che il 100% degli investitori internazionali riteneva insufficiente la disclosure sulla governance integrata, ossia la governance legata all’integrazione dei fattori environmental, social &governance (Esg). Questa bocciatura, peraltro, si accompagnava al fatto che, rivelava sempre la ricerca, il 70% degli investitori implementa un modello di “integrated governance” nelle decisioni di investimento, ossia integra “pienamente” i temi legati alla sostenibilità nei modelli di investimento su tutte le asset class e i fondi. Uno dei problemi rilevati più diffusamente dagli investitori è che «c’è troppa informazione dispersa in vari format», mentre l’esigenza è quella di «vedere le informazioni materiali tutte insieme». Integrate, appunto.
Ecco perché è intervenuto e sta intervenendo il regolatore. A livello europeo, Bruxelles ha imposto la rendicontazione delle informazioni cosiddette “non financial”, di fatto rendendo imperativa l’integrazione delle variabili environmental, social e governance nei bilanci delle aziende di maggiori dimensioni. In Italia, la direttiva è stata recepita nella sua accezione più dura, incaricando la Consob (non a caso, l’authority di riferimento della Borsa) di esserne il soggetto di riferimento. La stessa Borsa, a febbraio 2017, ha presentato le proprie linee guida per la rendicontazione (cioè, l’integrazione nei bilanci) dei fattori Esg.
In base alle rilevazioni dello scorso anno dell’International Integrated reporting council, c’è stato un notevole incremento di leading practice nell’adozione del <IR>, con oltre 300 casi che fanno riferimento alle linee guida Iirc. Anche l’Italia ha reagito con un certo dinamismo. Erano una mezza dozzina le aziende che hanno preso parte alla fase pilota dell’Integrated Reporting nel 2011. Negli anni successivi, tra i primi gruppi a compiere un passo concreto verso <IR> c’è stata Eni, seguita da alcuni compagini industriali (Pirelli e Atlantia) quindi finanziare (Unicredit e Generali).
A oggi si può stimare che siano una decina le aziende (tra utility, energia e finanza) arrivate a un vero bilancio integrato. Tra i passaggi annunciati c’è quello di Unipol: non a caso, il gruppo bolognese ha avviato un percorso che ha coinciso, a fine 2016, con l’inclusione in due indici di sostenibilità internazionali (il Ftse4good e lo Stoxx). Sono indici al servizio degli investitori: come dire, l’integrazione della sostenibilità nelle procedure di rendicontazione di Unipol si è tradotta in un parallelo upgrading nei giudizi degli analisti Esg internazionali.
I numeri, nel complesso, appaiono ancora ridotti rispetto al numero complessivo di imprese attive. Ma integrare la sostenibilità, si legge in una recente ricerca di EY, è «un’operazione non semplice: le aziende sembrano essere incalzate da altre priorità, spesso di breve termine. A volte mancano le competenze necessarie per tradurre l’integrazione della sostenibilità in strategia e operatività. Non esiste, inoltre, né un’unica ricetta, né un unico strumento per ottenere l’integrazione, che spesso è il risultato di più azioni e più strumenti combinati».
Tuttavia, difficile o meno, compresa o meno, non si scappa. Sempre la ricerca EY parla chiaro: intervistati su quanto il tema dell’integrazione della sostenibilità condizionerà il business nei prossimi 3 anni, i leader rispondono “molto o moltissimo” nel 76% dei casi.