Pedalando verso il benessere
Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Abbiamo esplorato il tema del
La finanza è stata considerata per molto tempo il nemico agli occhi del mondo attento al bene comune, all’ambiente, ai diritti umani, alla giustizia distributiva e molto altro. Ora tutto è cambiato ed il sostenibile conviene.
La finanza è stata considerata per molto tempo il nemico agli occhi del mondo attento al bene comune, all’ambiente, ai diritti umani, alla giustizia distributiva e molto altro. Ora tutto è cambiato ed il sostenibile conviene.
Ogni istante sorgono nuove idee di prodotto, di impresa, o di innovazione nelle imprese. Il nuovo però spaventa e, prima di lanciarsi nei suoi costi di realizzazione, spesso si devono condurre laboriose indagini per capire se ne vale la pena. Il tutto converge verso un decisore finale: la finanza, intendendo questo termine in tutte le sue forme e scale, dal venture capital, passando per ogni forma di equity, su fino ai grandi fondi che benedicono o condannano titoli nelle borse mondiali.
La finanza bene fa il proprio lavoro di scrematura di ciò che è realistico – in un mare magnum di sogni – applicando criteri di puro e utilmente spregiudicato ritorno sull’investimento. Così dipinta, la finanza ha avuto per molti lustri il “volto del nemico” agli occhi di quel mondo attento al bene comune, all’ambiente, ai diritti umani, alla giustizia distributiva e molto altro. Ma oggi sta succedendo qualcosa di strano: da nemica del “bene”, la finanza si sta trasformando nella sua più efficace alleata. E non è solo una conversione di valori: i titolari del giudizio supremo di realismo su ogni innovazione economica – quelli che in fondo decretano se si farà o no – hanno scoperto che “sostenibile conviene” anche alla luce delle loro ciniche griglie di valutazione. Queste non sono essenzialmente cambiate, e riflettono malgrado tutto la stessa realtà di sempre: un mondo ove il vituperato profitto continua a operare come l’unica vera “mano invisibile” che manda avanti le cose. Quindi, proprio quella che è più urgente arruolare se davvero vogliamo salvare il pianeta.
Quella che è cambiata è la percezione che la finanza ha del “bene comune”. Per troppo tempo, sbagliando assieme a tutti gli altri, ha trattato i valori del bene comune alla stregua di un serbatoio di costi aggiuntivi che deprimono la competitività – legati a obbiettivi nobilissimi, ma da affidare alla filiazione filantropica dell’impresa perché business is business e quei valori parevano del tutto estranei alla meccanica economica. Oggi, la stessa finanza scorge nell’attenzione dell’impresa al bene comune un fattore di competitività, solidità e durata dell’investimento. Un’autentica inversione a U, e i numeri parlano: gli investimenti ESG (“Environment, Society, Governance”) rappresentano a livello mondiale circa un quarto di tutti gli asset gestiti e si situano intorno ai 20.000 miliardi di U$, in capo a operatori che rappresentano 70.000 miliardi di U$ e che stanno rapidamente convertendo in questa direzione l’insieme dei loro portafogli. I dati relativi agli USA parlano ancor più chiaro: oggi gli investimenti ESG ammontano a circa 12.000 miliardi – il 26% degli asset gestiti – erano 8.600 nel 2016 e solo 639 nel 1995, anno in cui iniziarono a essere censiti. Un volume cresciuto 18 volte in vent’anni e un tasso composito di crescita annua del 13,6% non si spiega solo con cuori più illuminati.
Com’è cambiata esattamente la valutazione degli ex “malvagi” dell’economia? Una pista ce la fornisce quanto sta accadendo con i negoziati sul clima, ma dobbiamo partire da un po’ più lontano. Nel 301 d.C., l’imperatore romano Diocleziano scoprì a sue spese che non si può sperare di imbrigliare il mondo reale entro un sistema di regole imposte dall’alto ma non condivise dalla società: decretò dei calmieri sui prezzi, col risultato che per qualche tempo l’inflazione apparve ufficialmente debellata ma la vera vita economica si trasferì in uno spazio diverso e illegale, nel mercato nero, con danni molto maggiori di quelli a cui si voleva rimediare.
Questa lezione è alla base dell’alchimia che ha consentito l’Accordo sul clima della CoP 21 a Parigi nel 2015, imperniato su contributi che ciascuno Stato determina volontariamente, invece che su vincoli all’economia preordinati a tavolino. La stessa alchimia si è ripetuta alla recente CoP 24 di Katowice: ne è emerso un “prontuario applicativo” dello stesso Accordo di Parigi per certi aspetti persino obbligatorio; ma anche un testo ove ogni questione controversa è stata superata rimettendola al “ciascun fa ciò che può e gli conviene” in attesa di tempi più favorevoli.
Scoraggiante? Forse; o forse un passo in più nel riconoscere la realtà di un mondo dove non è possibile “calmierare” le emissioni di CO2 con provvedimenti dall’alto, e in cui ciascuno deve soprattutto fare quel che gli conviene. Malgrado le apparenze non è una strada rinunciataria, perché l’emulazione volontaria al rialzo fra le varie nazioni ed economie farà emergere una verità: sostenibile conviene soprattutto all’economia reale e chi si tiene fuori dal gioco ancorandosi all’inerzia di interessi al tramonto – le mie miniere, la mia industria pesante, ecc. – non fa altro che emarginarsi e restare indietro nell’innovazione, autoescludersi proprio da quell’evoluzione che crea competitività ed espansione pulita del ciclo economico. Lo certifica, tra gli altri, un recente studio Boston Consulting Group su impresa e cambiamenti climatici, che sfata in pieno la diffusa convinzione che i First movers – cioè i primi ad adottare le nuove tecnologie pulite – siano svantaggiati rispetto ai Late movers. Secondo BCG è vero il contrario, ovvero che la decisione di fare da battistrada darà ai First Movers un vantaggio competitivo tale da compensare i maggiori costi iniziali. Ma lo certifica anche la realtà dei fatti: più che una maggior consapevolezza dei pericoli che corre il pianeta, è proprio il timore di perdere il treno dell’innovazione e della competitività che ha sospinto, ad esempio, la divaricazione fra le politiche ambientali del Governo Federale USA e quelle promosse da Stati e Contee che raccolgono circa l’80% degli americani. Certo, questi ultimi vogliono fare la loro parte per proteggere la biosfera; ma soprattutto non vogliono indugiare e incagliarsi in un’economia superata dagli eventi. E la finanza li sostiene.
In pratica, il giudice supremo degli investimenti – che ha oggi dichiarati fautori quali Blackrock, Forbes, Bloomberg, il Forum di Davos, o BCG – ha deciso che il business sostenibile è un buon cavallo su cui puntare. Perché? Un primo fattore è poco compreso ma determinante: si tratta di una semplificazione che abbatte molto i costi di selezione degli investimenti meritevoli di sostegno. In passato la responsabilità d’impresa si esplicava in segmenti e ambiti d’impegno separati e distinti – chi nel sociale, chi nell’ambiente, chi nella famiglia, chi nella valorizzazione dei dipendenti, ecc. – genericamente etichettati come “bene comune” ma sconnessi fra loro. Oggi invece tutti questi segmenti sono stati ricondotti a unità integrandoli come pilastri della sostenibilità. La nuova idea di sostenibilità valorizza il sociale per l’ambiente, l’ambiente per l’economia e l’economia per il sociale in una circolarità che è sostanziale equivalenza, anzi una sovrapposizione indistinguibile fra i vari ambiti: la responsabilità sociale produce benefici ambientali e viceversa, ad esempio, e ciò rende tutta la valutazione molto più agevole.
Gli altri fattori apprezzati dalla finanza sono più aziendali; ma fra questi, l’elemento determinante non è quello a cui si pensa per primo. Non è una nuova lucente immagine di “bontà” dell’impresa o dei suoi marchi – persino rischiosa se denigrata come greenwashing – a fare la differenza per clienti e consumatori. Questa, semmai, gioca positivamente all’interno dell’impresa, nelle sue relazioni industriali, poiché le imprese che hanno incorporato una missione verso la comunità nella propria identità beneficiano di solito di un clima interno meno conflittuale e più produttivo e creativo. All’esterno, la triste verità è che la domanda dei consumatori è indifferente all’immagine socio-ambientale dell’impresa, e non include la condizione che un certo prodotto contribuisca a salvare il mondo. Per quanto si urli e dichiari, è molto limitata – emblematicamente entro la cerchia del cosiddetto commercio equo e solidale – la percentuale dei consumatori che pagano anche per una migliore qualità etica o comunitaria del prodotto che acquistano. Quindi, tristemente, l’impresa non aumenta il proprio volume d’affari perché fa sapere che si batte per il futuro; ma ciò non vuol dire che la sostenibilità non sia volano di vendite. Lo è in maniera tanto potente quanto indiretta: pochissimi comprano sostenibile perché salva il mondo, ma sempre di più lo fanno perché sostenibile è divenuto sinonimo di qualità del prodotto o dell’esperienza che vi si associa.
Un altro fattore di solidità apprezzato dalla finanza è che – banalmente – sostenibile vuol dire impegnato a proteggere nel tempo le risorse dell’impresa, la cosiddetta supply chain nelle sue componenti naturali e socio-territoriali, e quindi porta a pianificare per tempo un’organizzazione della produzione durevole, senza rinviare costi ora elusi ma che prima o poi esploderanno. E vi è un ultimo fattore, forse il più determinante: finalmente si è capito che il costo d’impresa riversato sulla comunità o sul territorio – la cosiddetta “esternalità negativa”, come l’inquinamento – prima o poi torna indietro ed esige di essere rimborsato, portandosi un tasso d’interesse esorbitante (ILVA docet). Sostenibile però è qualcosa di più, non solo astenersi dal danneggiare il territorio, bensì proiettarsi a integrarlo; e ciò realizza un valore che in passato era indicizzato solo nella copertura assicurativa degli investimenti nei paesi poveri: il “buon clima” per l’investimento, che però è essenziale ovunque e per tutti. Soprattutto per quelli che più temono i costi della conversione sostenibile e sospettano che essa non possa ancora portare vantaggi alla loro scala: i piccoli e medi imprenditori, ovvero l’Italia. Sbagliano, e nel prossimo articolo vedremo perché.