Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
L’interdipendenza fra il benessere dell’umanità e la salute della natura sono al centro dell'ecologia integrale e al centro dell'Agenda 2030. Perché degrado ambientale, povertà, fenomeni migratori di massa non sono sfide distinte.
L’interdipendenza fra il benessere dell’umanità e la salute della natura sono al centro dell’ecologia integrale e al centro dell’Agenda 2030. Perché degrado ambientale, povertà, le migrazioni di massa non sono sfide distinte.
Degrado ambientale, povertà, conflitti, terrorismo, migrazioni, mancato rispetto dei diritti dell’uomo, economie inique e comunque avviate verso orizzonti di stagnazione: questa breve lista potrebbe sembrare la sintesi dei peggiori problemi che affronta questa generazione. Sembrano sfide distinte, in alcuni casi “concorrenziali”, nel senso che la loro soluzione – separandole una per una – impone di distribuire risorse scarse dosandole su vari fronti. Tuttavia, tali dinamiche sono legate nelle cause quanto nelle soluzioni: assistiamo in realtà ad un’interazione cumulativa e destabilizzante fra degrado ambientale, povertà, disgregazione sociale e violazione dei diritti umani, che già prende ampiezza nelle regioni più fragili. Questo nesso trans-settoriale è stato colto in una nuova agenda internazionale per lo sviluppo, mentre emerge anche nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco: qualunque sia il nostro credo, si deve riconoscere all’enciclica il merito di aver messo in luce l’interdipendenza e la risonanza fra il benessere dell’umanità e la salute della natura con l’idea di “ecologia integrale”.
Il salto mentale che l’Agenda 2030 ci costringe a fare è integrare l’ambiente nello sviluppo, più di quanto facevano gli Obiettivi del Millennio, e ciò significa che gli obiettivi di sviluppo umano di sempre devono essere ridefiniti entro il sistema che ci circonda, che non è inerte e plasmabile a piacere, ma possiede dei limiti biofisici e una precisa dinamica che interagisce con noi e reagisce alle nostre azioni. Si tratta di un cambio di prospettiva profondo, con cui iniziamo a guardare al futuro dell’umanità non come un assoluto, bensì nel contesto di interdipendenze ed equilibri che reggono il funzionamento di un sistema più ampio di cui siamo parte: un sistema condiviso che dobbiamo pertanto gestire tutti assieme e che, come la casa di ogni famiglia, deve essere mantenuto in equilibrio in tutti i suoi elementi, sia umani che fisici, e nel modo in cui questi elementi interagiscono. Il cambiamento climatico muove l’equilibrio globale, nelle sue sfaccettature umane e naturali, evocando uno strumento matematico: come una matrice che mette in relazione tutti gli ordini di fattori che interagiscono fra di loro.
Questa matrice non è diversa dall’Agenda 2030, solo che ritrae in maniera più omogenea le interazioni fondamentali sottostanti. Questa matrice ci dice, in sostanza, che se il campo di un contadino povero è contaminato sarà a rischio la sua sussistenza e quindi i diritti fondamentali della sua famiglia – come poter mandare i figli a scuola – e che ciò può spingerlo a migrare oppure a tentare di ottenere il necessario con mezzi illeciti o violenti. Ma ci dice anche che se il contadino è andato a scuola avrà più strumenti per difendere il suo campo dalla contaminazione, potrà quindi beneficiare di più sicurezza e tutelare i diritti della sua famiglia e via dicendo, in un ciclo che potrebbe essere crescente e costruttivo. E ci dice anche che non esiste una contraddizione fra lo sviluppo dell’uomo e il generoso equilibrio della natura: non è vero che l’ecosistema, non essendo infinito, pone un limite al progresso, se nel progresso includiamo anche beni che prima non contabilizzavamo, come la pace sociale e internazionale, il tempo per la famiglia, aria, acqua e cibo salubri, e così via. Sono proprio i beni che troviamo nell’Agenda 2030. Non è solo una questione etica: un impegno prioritario in soccorso dei poveri è necessario ed è nell’interesse di tutti: la natura esige giustizia.
Occorre infatti intervenire anzitutto lì dove la soglia di collasso socio-economico è più bassa, poiché da lì rischia di partire il ciclo globale di instabilità paralizzante, mentre lì rimarrebbe trascurato l’obbiettivo di proteggere la natura e impegnarsi per il clima. È nelle regioni più povere – dove la società non ha i mezzi per soccorrere i più colpiti – che prende avvio il ciclo dell’instabilità e della rinuncia a difendere l’ambiente, perché chi ha l’urgenza dell’oggi non può curarsi del domani. È però impossibile vincere la sfida dei cambiamenti climatici e di un più generale recupero della natura senza la partecipazione delle comunità più vulnerabili: se le economie più solide incidono attualmente di più sulle variabili produttive ed energetiche dell’equazione, i poveri controllano invece gli usi di estensioni vastissime, che rappresentano anch’esse una parte essenziale della soluzione: come si usa la terra, lo vedremo meglio, fa un’enorme differenza per il clima. Non ci possiamo quindi permettere di assistere alla rinuncia dei paesi poveri di contribuire alla sfida generale del clima – o della biodiversità, o altro – perché intrappolati da urgenze più immediate.
Una certa dose di alterazione dei suoli è sempre stata causata dall’umanità che li ha progressivamente occupati ma, in passato, ciò avveniva a ritmi e secondo modalità che ne consentivano la “guarigione” spontanea o che, pur modificando la vitalità della terra, la conservavano. È da quando il nostro approccio al terreno è divenuto industriale che, invece, dove l’uomo tocca la terra tende a “ucciderla”. Ciò dipende da una miriade di pratiche sbrigative rispetto al fattore vita, diffusesi in agricoltura e pastorizia, edilizia e urbanizzazione, industria e turismo, generazione dell’energia e tanto altro. Le città moderne, erette su uno strato impermeabile di asfalto, soffocano i suoli. Altrettanto fanno i complessi industriali che li avvelenano, le cattedrali minerarie a cielo aperto, molte infrastrutture, le dighe che alterano i corsi dei fiumi, le pratiche di monocultura e agricoltura industriale basate sui concimi chimici, e tanto altro. In questi o in altri modi, il risultato è stato che negli ultimi 150 anni più della metà delle terre emerse ha subito un’alterazione della sua vitalità spontanea e che i residui morti di tutto ciò – terre che sono divenute per una ragione o per l’altra improduttive – crescono costantemente, di circa dodici milioni di ettari all’anno, ovvero una superficie pari a quella della Bulgaria. In questo modo il degrado dei suoli incide, attualmente, sulle vite di più di un miliardo e mezzo di persone in 168 paesi. Guarda caso, questo fenomeno riguarda soprattutto i paesi poveri.
I pericoli connessi con questa devitalizzazione del suolo sono rimasti nascosti all’ombra della rivoluzione agricola del XX secolo che ha moltiplicato i rendimenti grazie alla meccanizzazione e alla fertilizzazione chimica. Questa ci ha portato a pensare che, anzi, dal punto di vista dei nostri interessi, abbiamo migliorato e non degradato le terre. Solo che non esiste unicamente l’interesse umano; ed è una bella vittoria di Pirro averlo iper soddisfatto per un breve periodo rischiando poi di restare con un pugno di mosche dopo il collasso dell’intero sistema. Senza contare che la sovrabbondanza così generata è stata incanalata a consentire un mondo polarizzato fra ricchi insalubri perché ipernutriti e poveri sottonutriti. Per il vicino futuro, le spinte a intaccare la vitalità delle terre si presentano in ulteriore e vorticosa accelerazione. La popolazione si espande velocemente e metà di essa si avvia a essere urbana, cioè a mettere sul piatto della bilancia globale delle necessità che pesano molto di più sull’ecosistema di quelle degli abitanti delle campagne: le città realizzano alcune economie di scala, ma per lo più portano alla moltiplicazione di bisogni artificiosi, e ciò significa che ogni foglia d’insalata, oltre che coltivata, dev’essere trasportata, stoccata, refrigerata, distribuita e via dicendo. Tutto questo richiede di estrarre volumi sempre maggiori di risorse, occupando sempre maggiori superfici oppure operando prelievi sempre più intensi su quelle che già abbiamo occupato.
È in questo quadro generale che si situa la minaccia di un effetto serra avviato a trasformarsi in effetto guerra. Perché i cambiamenti climatici acuiscono il divario fra ricchi e poveri e anche perché sono più intensi proprio lì dove ecosistemi fragili si sovrappongono società fragili, con alcune aree dell’Africa a offrire un caso emblematico.
In particolare, il riscaldamento globale è percepito come un rischio per la sicurezza alimentare dei più deboli perché rende incerte le stagioni e inaridisce le terre. L’analisi più diffusa ha contorni inquietanti: dar da mangiare a una popolazione mondiale che si avvia ai nove miliardi e mezzo di abitanti nel 2050 e che è sempre più urbanizzata – si sente dire – richiede un aumento della produzione di cibo del 70%, che comporta un ulteriore fabbisogno di energia del 37% e il 55% in più d’acqua consumata. A questo quadro si aggiungono i cambiamenti climatici che esacerbano la fragilità dei suoli. Si profila quindi anche un’ulteriore disastrosa spinta a occupare con l’agricoltura i pochi ecosistemi rimasti intatti.
Buona parte delle terre moribonde è nel Sahel, da dove nascono migrazioni, traffici e terrorismo che coinvolgono anche noi. La regione che va dalla Nigeria al Niger, Algeria e Marocco, è stata a lungo segnata dalla migrazione dei lavoratori provenienti dall’Africa subsahariana verso nord sulla costa mediterranea e in Europa. Per fare questo viaggio via terra, spesso i migranti attraversano la regione del Sahel e del Sahara, un’area che sta fronteggiando crescenti minacce per l’ambiente per effetto del cambiamento climatico. L’aumento del livello del mare, la desertificazione, siccità, e i numerosi altri effetti potenziali del cambiamento climatico potrebbero far aumentare il numero di migranti e rendere questi percorsi più pericolosi in futuro. In aggiunta a queste sfide future ci sono già forti instabilità nella regione, come la difficoltà della Nigeria con i ribelli interni e la portata sempre maggiore di Al Qaeda nel Maghreb islamico, che si è ampliato al di là dell’Algeria.
Prima e durante l’evolvere delle Primavere arabe, la Siria è stata colpita direttamente da un’anomalia climatica. Nei quattro anni che hanno preceduto le prime dimostrazioni di piazza, ha infierito sulle fattorie siriane una siccità straordinaria che ha sospinto più di un milione e mezzo di persone ad abbandonare le campagne per cercare disperate alternative in città. Ciò ha creato un’enorme pressione sociale e non è sorprendente quello che è successo in seguito e che – complici anche altri fattori – è sfociato nella nascita ed espansione dell’Isis, oltre che in massicce ondate migratorie.
In questa regione le terre semidegradate sono ampiamente disponibili e recuperare un ettaro per restituirlo alla piccola agricoltura familiare nel Sahel costa in media 130/200 U$: con poche cautele alla portata delle comunità rurali africane si riesce a riattivarne la fertilità. Scopriamo allora che la stessa agricoltura più umana, quella che redistribuisce reddito, sicurezza e dignità, è anche quella che assorbe i gas serra e non in modo marginale: politiche di questo genere, praticate su vasta scala, potrebbero da sole portare un terzo delle riduzioni di emissioni necessarie per evitare la catastrofe climatica. Basta cambiare prospettiva: con un solo gesto di giustizia, possiamo innescare un ciclo di riequilibrio umano e ambientale che offre a tutti orizzonti più sicuri.
L’Isis ricorda da vicino un’altra formazione estremistica, che agisce e perpetra numerose atrocità in Africa sub-sahariana: Boko Haram. Ebbene, è difficile immaginare che Boko Haram sarebbe potuto diventare un fenomeno così vasto e minaccioso senza un altro sconvolgimento naturale di cui si sente parlare poco, ma che ha assunto proporzioni catastrofiche. Boko Haram prolifera in una regione che ha conosciuto la contrazione del lago Chad da 25.000 a 1.400 chilometri quadrati dagli anni ’60 ad oggi. Ovvi gli sconvolgimenti che ciò ha causato nella vita sociale e produttiva di quella regione su cui si affacciano quattro paesi fragili – provate a immaginare cosa succederebbe dalle nostre ben più solide parti se il Mediterraneo si restringesse 18 volte in cinquant’anni. Ed altrettanto ovvio è cosa c’entra questo con Boko Haram: perché il giorno in cui la camionetta dei combattenti passa davanti alla piccola fattoria e chiama il contadino a unirsi alla riscossa, se questi ha un raccolto da mietere risponderà “domani, ora non posso”. Se invece prevede di mietere solo fame, sulla camionetta forse ci sale subito.
Lo squilibrio all’interno dell’umanità, specie l’ingiusta distribuzione delle ricchezze, porta quindi ad aggredire l’ambiente, oltre a rappresentare ovviamente una causa di conflittualità fra gli uomini. Ma questo legame opera anche in senso inverso: il degrado dell’ambiente favorisce l’ingiustizia e apre la strada a competizioni e conflitti. Cosa comportano, sul piano geo-politico ed economico, il cambiamento climatico e le altre alterazioni ambientali? Significano che alcune risorse essenziali – acqua, grano, terreno abitabile, ecc. – spariranno o saranno dislocate verso territori diversi da quelli in cui si trovano oggi. Molti ci perderanno; qualcuno, persino, ci guadagnerà. Ma, sicuramente, ci sarà una gara per recuperare le risorse perdute e accaparrarsi quelle nuove che si presentano. Succede davvero questo? Anche prima delle grandi alterazioni ambientali provocate dal genere umano, è provato che questo meccanismo ha avuto influenze importanti nel corso della storia e ha prodotto instabilità e violenza.
Secondo l’University College di Londra, ad esempio, cambiamenti climatici spontanei si sarebbero rivelati in passato responsabili di eventi catastrofici come guerre, epidemie e bruschi cali demografici. Lo studio dell’University College ha preso in considerazione le variazioni di temperatura tra il 1400 e il 1900 in Europa e tra il 1000 e il 1900 in Cina. I ricercatori hanno dimostrato che in quei periodi in cui il clima era particolarmente freddo, la probabilità di guerre era doppia (1,94 volte in Europa, 2,24 volte in Asia) rispetto ai periodi di clima mite. La nostra ipotesi – spiegavano i ricercatori – è che i cambiamenti climatici abbiano avuto un effetto diretto sulla produzione agricola, diminuendola sensibilmente. La carestia a sua volta genera conflitti ed epidemie che si riflettono in una riduzione della popolazione globale. Sebbene la ricerca si basi sugli effetti di una piccola era glaciale e oggi stiamo vivendo, al contrario, la fase più calda del clima degli ultimi millenni, secondo gli scienziati, gli effetti sono gli stessi.
Più di recente, uno studio americano pubblicato sulla rivista Nature ha evidenziato l’impatto di El Niño sulla stabilità politica. A parte il riscaldamento globale causato dall’uomo, il sistema climatico del pianeta Terra è caratterizzato da una varia bilità naturale che produce oscillazioni accoppiate di oceani e atmosfera in cui si ha una grande variazione di temperature del mare e dei venti, con un influsso molto forte sulla temperatura dell’aria e sulla quantità di piogge che cadono in determinate fasce di Paesi.
La maggiore di queste oscillazioni è la El Niño Southern Oscillation, nota con l’acronimo Enso. La caratteristica principale di Enso è che influenza direttamente gran parte del Pacifico e, indirettamente, anche una moltitudine di paesi più o meno lontani dall’area pacifica. Gli studiosi hanno diviso i paesi in due gruppi: quelli che vengono influenzati da Enso e quelli che non risentono climaticamente della sua influenza, per controllare se un indice – da loro definito come rischio annuale di conflitto – risultasse variare allo stesso modo o in modo diverso nei due gruppi di Stati. Il risultato fondamentale di questa ricerca è stata la scoperta che, mentre nei paesi non influenzati la probabilità di nuovi conflitti non dipende ovviamente dalla due fasi di Enso, negli altri Stati questa probabilità raddoppia nella fase di El Niño rispetto alla fase di La Niña, e che Enso ha avuto un ruolo nel 21% di tutti i conflitti civili avvenuti dal 1950 ad oggi. Se si pensa che El Niño porta un clima più caldo e secco nei paesi della fascia sub-tropicale, i più esposti alle variazioni di Enso, si può capire come ciò possa avere un’influenza negativa sulla sicurezza dei raccolti e creare vere e proprie carestie, instabilità sociali, tensioni e conflitti, prefigurando una congiuntura che il riscaldamento globale sta trasformando nello spettro di una tragedia per tutta la superficie terrestre.