Accendiamo la luce sul futuro
La serie di fantascienza Star Trek è ambientata nell’anno 2264. Gli esseri umani viaggiano nella galassia insieme agli alieni, aiutati da computer, propulsione più veloce d
Twitter blocca Trump, TikTok e Instagram solo ora si preoccupano dei minori. C’è un vuoto normativo in rete e una catena che rischia di promuovere l’estremismo. Changes ne ha parlato con Luciano Violante.
«È ragionevole che le piattaforme social abbiano bloccato i profili di Donald Trump. È vero che quel Presidente era stato eletto da milioni di cittadini, ma quelle piattaforme sono usate anch’esse da milioni di persone, che hanno diritto ad essere tutelate da false informazioni». Luciano Violante, giurista di lungo corso e già Presidente della Camera, non trova sconvenienti le misure riservate da Facebook e Twitter all’ex Presidente degli Stati Uniti. Ha suscitato clamore in tutto il mondo il dibattito sulla libertà d’espressione in rete, ma soprattutto sulla sua gestione demandata ad un pugno di società quotate in borsa, anziché ad istituzioni pubbliche che la riconoscano quale principio costituzionale condiviso.
«Guardiamo a cosa sta succedendo e smettiamo di ripescare diatribe antiche tra “pubblico” e “privato”», dice a Changes Luciano Violante, oggi Presidente della Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine, pensatoio costituito dall’ex Finmeccanica per contribuire al dibattito pubblico sulla trasformazione digitale. «Le piattaforme social sono privati sui generis, si muovono in uno spazio immateriale, di cui posseggono le chiavi d’ingresso, le chiavi d’uscita, le strade per muoversi, i mezzi con cui spostarsi. Le compagnie del digitale hanno creato, e amministrano, lo spazio digitale, uno spazio immateriale, diverso da quello materiale in cui viviamo. Di chi è questo spazio? Non è certamente nostro, lo spazio è loro, lo hanno costruito loro, diciamolo chiaramente. Credo perciò che le regole vadano costruite insieme a loro. E sinceramente, da giurista con oltre 50 anni di lavoro alle spalle, dico che ho un certo pregiudizio contro le leggi. Le leggi sono strumenti duri, lunghi da costruire, difficili da modificare, che non risolvono i problemi più gravi, ma ne assegnano la decisione a terzi, all’autorità giudiziaria. Preferisco, sin quando è possibile, regolamentazioni pattizie».
Eppure le iniziative legislative cominciano a moltiplicarsi anche in Europa, dimostrando in particolare l’assenza di una cabina di regia europea comune, su temi di rilevanza squisitamente sovranazionale. Le piattaforme social non hanno confini, eppure aumentano le iniziative dei singoli Stati. La Polonia prepara una legge per impedire che le piattaforme possano chiudere profili social che non violano la legge polacca. In Germania, invece, l’antitrust tedesca potrà controllare meglio le fusioni sul mercato digitale, ma soprattutto l’unico (e ultimo) giudizio sui contenziosi social spetterà alla Corte federale di giustizia di Karlsruhe.
Ragiona Violante: «Sono entrambi segnali importanti perché si cominciano a costruire regolamentazioni. Mentre comprendo il senso della legge tedesca, mi preoccupa però quella polacca, perché in Polonia la legge stabilisce un parametro di valutazione dei singoli contenuti: la piattaforma non può cancellarli se coerenti con le leggi in vigore. Ma oggi in Polonia denigrare zingari, ebrei e minoranze non è illecito. In Germania invece è stato stabilito semplicemente uno snellimento delle procedure: per queste questioni si potrà ricorrere solo presso la loro Corte di Cassazione, evitando i diversi gradi di giudizio. Per la disciplina su cosa cancello, cosa consento e chi entra serve una agenzia pubblica europea, che stabilisca insieme alle grandi compagnie del digitale le regole di fondo valide per tutti».
Finora, però, a procedere appunto sulla base di policy e regolamentazioni interne, sono state le piattaforme social stesse. Intervenendo, come nel caso di Twitter, per contrassegnare singoli post e pubblicazioni degli utenti con le diciture “notizia controversa” e “notizia forse manipolata”. Il tentativo resta quello di arginare un fenomeno che appare un po’ più complesso: in rete i contenuti più polemici riscuotono più interazioni. E ciò che diventa popolare, viene promosso dagli algoritmi per raccogliere ancor più clic. Una catena che rischia di promuovere l’estremismo. «Quando fu inventata la stampa nel ‘400, si verificò un fenomeno analogo: il libro passò da oggetto di discussione tra una cerchia ristretta, a prodotto per la borghesia. Nacque così la censura, aggirata spesso con l’apposizione della dicitura “stampato a Ginevra”, dove un libro non poteva essere censurato, al contrario delle regole vigenti in Italia. Questo ci riporta anche all’era digitale, in cui i server che conservano documenti digitali sono spesso collocati negli Stati in cui vigono leggi più morbide».
Ci troviamo, quindi, di fronte a una dinamica irriformabile? «Le racconto un aneddoto: quando ero Presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera, l’Italia era bombardata quotidianamente da notizie sui crimini, ma poi le statistiche davano l’Italia come uno dei Paesi più sicuri del mondo. Riunii i direttori di tg e giornali per studiare il fenomeno, perché c’era allarme nella popolazione. Il direttore di un importante telegiornale mi disse: “Guardi, se so che un collega darà la notizia di un omicidio, la darò prima io. Poi tenga presente che faccio 6 edizioni al giorno e do la stessa notizia sei volte, a cui si sommano tutti gli altri tg, locali e nazionali. Non c’è da stupirsi se il delitto suscita interesse. È sempre stato così e succede anche in rete”».
Il fascino della cattiva notizia nelle piattaforme social
Al riguardo, sembra paradigmatica la storia di Anthime Joseph Gionet, ex giornalista del sito americano BuzzFeed che il 6 gennaio scorso ha partecipato all’assalto contro il Congresso degli Stati Uniti da parte dei sostenitori di Donald Trump. Ben Smith, già direttore di BuzzFeed, ha spiegato la trasformazione di Gionet da giornalista a estremista di destra anche con «l’attrazione gravitazionale» esercitata dai social network. «Gionet ha seguito i segnali che trovava sui social media senza alcuno scrupolo. La sua urgenza era di costruire un pubblico, lo ha trovato tra i negazionisti del coronavirus e poi, quando pare che abbia contratto la malattia, ha postato una foto del risultato positivo del test su Instagram e una faccina con le lacrime. Poche settimane dopo si è unito alla rivolta trumpista al Congresso», ha spiegato il suo ex direttore.
«La regola della cattiva notizia che genera attenzione vige da sempre. Il tasto da toccare è quello dell’educazione», spiega Luciano Violante. «In questo momento i Paesi occidentali sono privi di pedagogia, le stesse forze democratiche hanno rinunciato a fare opera di pedagogia civile. Serve allenare all’esercizio dello spirito critico, è una questione più pedagogica che legislativa». Certo, toccare le corde giuste per allenare all’esercizio della critica gli utenti in rete, esposti alle cosiddette “camere dell’eco”, appare un’impresa piuttosto ardua. Gli algoritmi tendono a proporci notizie verso cui abbiamo già mostrato interesse. Questo rafforza le nostre opinioni, privandoci della necessaria diversità.
L’agorà digitale favorisce la polarizzazione delle opinioni? «C’è una logica anche nelle opinioni: le valutazioni ispirate a valori democratici hanno bisogno di spiegazioni, perché la democrazia è una costruzione dell’intelligenza umana, non esiste in natura. L’opinione violenta non ha bisogno di giustificazioni, si giustifica per sé stessa; se insulto qualcuno, il senso della frase si comprende subito, mentre se dico “sei educato”, non produco lo stesso effetto. Si tratta di un meccanismo a spirale crescente: siccome le piattaforme mi conoscono e sanno che ho degli interessi, mi mostrano notizie che appartengono a quegli interessi. Questo di per sé non mi scandalizza, ma è fondamentale appunto non sentirsi bombardati né condizionati, ma sufficientemente liberi per non restare suggestionati. È chiaro che vedere crescere i followers, può innescare un meccanismo di polarizzazione. Ma a produrre queste conseguenze è piuttosto la destabilizzazione della gerarchia del sapere nella nostra epoca. Da “uno vale uno” siamo rapidamente passati allo “zero vale zero”».