Perché non possiamo fare a meno di Taiwan
Una storiella americana – quasi una leggenda metropolitana perché di difficile attribuzione – racconta di una grande impresa manifatturiera, probabilmente una cartiera di Chic
La domanda di beni elettronici e di energia pulita è esplosa. Le materie prima mancano. Perché la transizione verso la sostenibilità ha mandato in crisi domanda e offerta.
Elettrificare i consumi significa ridurre le emissioni di Co2 e aiutare i nostri sistemi ad attenuare l’impatto dei cambiamenti climatici. È questa la convinzione su cui da anni istituzioni e imprese insistono per stimolare l’accelerazione della transizione ecologica. Una rivoluzione elettrica che coinvolge la mobilità, il mondo dei consumi domestici, le industrie e l’edilizia.
In questo contesto, tuttavia, si aggira lo spettro dell’eccezionale crisi di approvvigionamento che ha colpito tutte le materie prime e dunque anche il settore dei componenti elettronici: quello dei microchip. Sono loro infatti i componenti essenziali alla base di gran parte degli strumenti elettronici di uso quotidiano.
Minuscole placchette di silicio la cui importanza è intuibile semplicemente guardandosi attorno: dal Pc o dallo smartphone con cui state leggendo questo articolo, dall’orologio che avete al polso alla calcolatrice che usate abitualmente per i vostri calcoli, sino ai finestrini delle automobili. Tutto questo e molto altro è basato su questi microcomponenti, diventati a causa della grande richiesta elettronica sempre più di difficile reperimento.
Succede, infatti, che la scarsità dei materiali stia letteralmente mettendo i bastoni fra le ruote alle aziende che si occupano di produrre questi vitali componenti elettronici. La conseguenza è che c’è chi aumenta il prezzo di listino dei beni (come diversi produttori di elettrodomestici) oppure chi è costretto a ridurre drasticamente la propria produzione. Lo hanno chiamato “chip crunch”, una vera e propria stretta nella produzione dei minuscoli microchip, su cui gran parte dell’industria elettronica si basa.
Ma a cosa è dovuta questa crisi? Accanto a una contingente esplosione della domanda di strumenti elettronici dovuta alla pandemia (pensiamo alla diffusione della Dad o dello smartworking), sono comparse anche delle difficoltà insite nelle stesse caratteristiche della catena di fornitura di questi materiali elettronici.
«Uno spaventoso effetto a collo di bottiglia, dovuto anche all’interruzione della produzione che i vari lockdown hanno causato», spiega a Changes Alberto Guidi, ricercatore ISPI. «La supply chain dei semiconduttori è infatti iper-diversificata, tanto che tra importatori ed esportatori possiamo contare oltre 60 paesi nel mondo. Una catena in cui nessun paese è in grado di essere autonomo. Se da un lato questa marcata specializzazione garantisce una grande efficienza, dall’altro espone il ciclo di fornitura a una pericolosa vulnerabilità, perché ci sono paesi che detengono il monopolio di una parte della catena di fornitura capace di bloccare tutta la restante. E come conseguenza c’è un aumento del potere ricattatorio di ciascun anello della catena».
Per questo motivo l’affare attorno ai microchip è anche un caso geopolitico. «Se alla fine degli anni ’90 Usa e Europa producevano il 90% dei semiconduttori, oggi ne producono solo il 10% con un orientamento della catena spostatosi marcatamente verso Oriente e infatti circa tre quarti di tutti i chip a livello globale provengono da Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan che detiene il 90% della produzione dei chip più piccoli». E l’Italia che ruolo gioca in questo scenario?
«L’Italia non è una grandissima protagonista del mercato dei semiconduttori dal punto di vista della produzione, come in generale non lo è tutta l’Europa», sottolinea a Changes Gabriele Braga, Managing Board ANIE Componenti Elettronici di Confindustria. «Diverso è invece il discorso se si guarda il lato della ricerca, dove attraiamo molte aziende americane che hanno centri di ricerca nel nostro paese». Dunque, la crisi ci riguarda in maniera marginale? «Nient’affatto. L’Italia ha una struttura economica notoriamente costituita da piccole aziende molto attive nella progettazione e nell’assemblaggio dei componenti. PMI che in questa crisi sono state strozzate ancora di più rispetto ai grandi colossi internazionali, che avendo volumi nettamente superiori hanno avuto la precedenza nella fornitura dei materiali. E tutto questo ha creato impatti spesso letali per le nostre piccole aziende».
Per tutte queste ragioni nel nome dell’autarchia produttiva tutti i paesi al mondo hanno lanciato negli ultimi anni vasti programmi d’investimento. In USA la nuova amministrazione Biden ha promosso l’American Jobs Act e il CHIPS for American Act con cui è stato lanciato un piano di investimenti in ricerca e sviluppo da 50 miliardi in 5 anni con l’intento di costruire nuove fabbriche e attrarre anche i grandi produttori. L’Europa dal lato suo lo scorso dicembre ha dato avvio all’European Initiative, con cui sono stati stanziati nel bilancio 60 miliardi di euro con l’obiettivo di raddoppiare entro il 2030 al 20% la sua quota di produzione di chip. E in questo scenario come si sta muovendo la Cina? «Pechino – ci dice Guidi – è il più grande importatore di chip al mondo e ha mancato l’obiettivo del suo Tredicesimo Piano Quinquennale, quando si poneva l’obiettivo di produrre entro il 2025 il 70% dei chip venduti nel paese. Ad oggi questa quota è appena del 27%, perciò nel Quattordicesimo Piano Quinquennale sono stati ulteriormente aumentati i fondi per la costruzione di nuove fabbriche e per gli investimenti in ricerca e sviluppo».
Ma quanto durerà ancora questa crisi della catena di fornitura dei chip? «Difficile fare previsioni – ci dice Gabriele Braga – ma quello dei semiconduttori non è un mondo dove si improvvisa. Ci vogliono tre anni per fare una fabbrica nuova, oltre agli ingenti investimenti, e per convertirne una che faceva altro». In più la domanda del mercato non è destinata a calare, anzi è in crescita. L’organizzazione World semiconductor trade statistics (Wsts) prevede per il 2021 una crescita del 20% per il mercato dei semiconduttori, che a fine anno dovrebbe arrivare così a valere 527 miliardi di dollari. «Questi due elementi portano a pensare che l’attuale crisi nel settore elettronico avrà ancora una coda ancora molto lunga». E sulla strada della tanto auspicata elettrificazione questo non è un ostacolo da poco.