Perché non possiamo fare a meno di Taiwan
Una storiella americana – quasi una leggenda metropolitana perché di difficile attribuzione – racconta di una grande impresa manifatturiera, probabilmente una cartiera di Chic
Le aree urbane occupano il 3% della superficie terrestre, ma qui si consuma l’80% delle risorse alimentari del Pianeta. Ecco perché devono diventare luoghi di coltivazione sostenibile: dal vertical farming alle food forest, i modelli più promettenti.
Il lattughino fresco tutto l’anno, privo di pesticidi e residui, che utilizza il 95 per cento in meno di acqua e il 98 per cento in meno di suolo per crescere. Coltivato, confezionato e distribuito in città, all’insegna di un chilometro zero che il know-how tecnologico apre a nuovi significati, proprio perché l’agricoltura del futuro sarà in città. Un bosco in città fonte di cibo per uomini e animali, orti protetti da una coltre di aceri e lecci, che attirano e catturano meglio di altre specie la co2 e rendono sana questo tipo di coltura anche nei luoghi più urbanizzati. E poi ortaggi e vegetali che, grazie a un metodo di coltivazione aeroponica, crescono fuori dal terreno, quindi potenzialmente ovunque, e fino al momento del consumo. Questi progetti potrebbero sembrare fantascienza e invece sono il presente dell’agricoltura, che negli ultimi anni è diventata uno dei settori più interessanti e in evoluzione per innovatori e imprenditori.
Del resto, basta dare un’occhiata ai numeri. Secondo le ultime stime dell’Onu, la popolazione mondiale arriverà a toccare i 9,7 miliardi nel 2050. Già oggi, il 55,7 per cento delle persone vive in città, e dovrebbe diventare il 68 per cento il 2050. Inoltre, le città occupano il 3 per cento della superficie terrestre, ma consumano l’80 per cento delle risorse alimentari del Pianeta. È inevitabile pensare che la rivoluzione debba nascere qui, e che i prossimi anni saranno cruciali per far diventare le città centri di coltivazione e produzione sostenibile. Il report Feeding ten billion people is possible within four terrestrial planetary boundaries, pubblicato su Nature, prospetta vari scenari di food security: produrre in maniera sostenibile, senza però introdurre correttivi o ottimizzare le risorse, può garantire una dieta bilanciata di 2.355 kcal al giorno a 3,4 miliardi di persone, mentre se ne potrebbero sfamare a 10,2 miliardi riorganizzando le colture, migliorandone la gestione, diminuendo gli sprechi e rivendendo i consumi alimentari.
Le città del mondo stanno diventando un laboratorio per mettere alla prova questi scenari e, anche in Italia, il verde si sta imponendo come motore di sviluppo: secondo l’ultimo rapporto GreenItaly di Symbola e Unioncamere, 432mila imprese italiane hanno investito nella green economy negli ultimi cinque anni e il 13,4 per cento degli occupati adesso lavora nel settore, (ovvero 3,1 milioni di persone). Senza contare la crescente attenzione di cittadini ed enti locali, sempre più proiettata verso un “verde con uno scopo”: sia esso ricreativo, turistico, legato alla salute, al controllo climatico e, ultimamente, anche all’agricoltura. Lo racconta Lucio Brotto, socio fondatore di Etifor, spinoff dell’università di Padova che si occupa di gestione e valorizzazione del patrimonio forestale in Italia e all’estero. «Prima di lanciare il progetto della food forest al Parco Nord di Milano, ci siamo chiesti: di cosa ha bisogno la città? Negli ultimi anni è diventata la capitale del cibo, facciamo allora riscoprire ai milanesi che la natura che li circonda è ricca di erbe, piante, arbusti i cui frutti e bacche possono anche essere utilizzati in cucina». Entro la primavera, all’interno del parco, verranno piantati 2mila alberi che aziende e cittadini possono adottare tramite il portale di riforestazione in crowdfunding wownature, per un totale di 10mila metri quadri di bosco con specie autoctone o comunque naturalizzate nel contesto milanese. «Saranno piante buone per l’uomo e per gli animali, divise in quattro tipologie: quelle di cui si potrà consumare direttamente il frutto (come fichi e giuggiole), quelle di cui si potranno raccogliere bacche e gemme da trasformare (per esempio quelle del sambuco), poi ci sono specie che producono mele e specie i cui frutti sono buoni per gli animali, come querce e frassini», continua Brotto. L’obiettivo è creare una foresta permanente fondata sul principio della permacultura: viene simulato il processo che avviene naturalmente in un bosco, permettendo di coltivare un’area con piante in altezze e piani diversi per ottimizzare l’uso di risorse, d’acqua e limitarne la manutenzione. Quando finirà l’impianto, compatibilmente con l’emergenza Covid, Etifor pensa a un grande evento pubblico d’inaugurazione, in cui verranno installati i pannelli informativi e i QR code relativi a ogni specie e ai suoi utilizzi. Frutti e bacche potranno poi essere raccolti nell’ambito di eventi e giornate a tema organizzate dal parco.
La foresta edibile del Parco Nord non è un esperimento, ma un modello educativo, lavorativo e rigenerativo scalabile ed esportabile, con tante dimostrazioni in Italia e all’estero. La stessa Etifor lo sta già applicando con successo dal Burkina Faso alla Sicilia, con la vendita dei prodotti finiti ben avviata in tutto il mondo. E proprio in Sicilia, a Partinico, sta nascendo in questi mesi un’altra food forest in un terreno confiscato alla mafia, grazie alla collaborazione di due realtà, la cooperativa agricola Valdibella e la cooperativa sociale NoE. «Il nostro lavoro mira proprio a far percepire il valore delle aree naturali, e a dare ad ogni bosco uno scopo ben preciso. Solo così può cambiare il modo in cui le persone si relazionano con questi ambienti. Tra gli strumenti a disposizione, la food forest si lega molto bene ad altre iniziative di verde cittadino come gli orti urbani», aggiunge Brotto.
Un altro dei sistemi più promettenti legate alla coltivazione sostenibile è quella dell’agricoltura verticale, che sta iniziando a diffondersi grazie alla congiuntura di know how multidisciplinare, tecnologia e interesse del mercato. «L’attenzione al prodotto green è molto trainato dalla domanda. Così il settore attrae idee innovative e nasce un circolo virtuoso che crea nuova industria», spiega Pierluigi Giuliani, Ceo e co-fondatore insieme al socio Benjamin Franchetti di Agricola Moderna, una delle aziende che stanno sperimentando questo tipo di coltivazione in Italia. Nata nel 2018, oggi l’azienda ha un impianto pilota commerciale di 1500 metri quadri a Melzo, alle porte di Milano, e produce ortaggi a foglia e piante aromatiche poi distribuiti a Milano tramite Carrefour e Cortilia. «Ma nella struttura abbiamo anche un centro di ricerca dove si studia come inserire la coltivazione di altri prodotti – pensiamo a frutti rossi e pomodori – e entro la fine dell’anno vorremmo avviare la costruzione di un impianto più grande, che possa servire tutta la regione», continua Giuliani.
Rispetto all’agricoltura tradizionale, vengono utilizzati il 95% in meno di acqua, grazie a un sistema idroponico e di ricircolo dell’umidità, il 98% in meno di suolo, perché lo sviluppo è in altezza, e la resa per metro quadro è del 100-150% in più. L’ambiente controllato e illuminato a Led permette di eliminare pesticidi, fitofarmaci e diserbanti, e di avere un prodotto estremamente fresco con prezzi in linea con il biologico. È il superamento de concetto di stagionalità e l’espansione del chilometro zero. «Potendo produrre tutto l’anno, stabilmente e ovunque, possiamo essere molto vicini ai punti logistici di distribuzione», spiega il Ceo di Agricola Moderna. «Inoltre, nel nostro spazio avviene tutto il processo produttivo, compreso il confezionamento, il che determina un impatto minore della filiera, che stiamo ulteriormente pensando di ridurre inserendo negli stabilimenti fonti di energia rinnovabile».
Sia Brotto sia Giuliani sono convinti che il settore possa essere un motore di sviluppo e di crescita economica. «L’agricoltura, anche quella tradizionale, è una sorta di vocazione per l’Italia – aggiunge Giuliani – e può diventare uno dei motori per le nuove generazioni e per fare investimenti, in Italia e non solo. È uno dei settori in cui l’innovazione ha ripercussioni direttamente visibili sulla vita delle persone». Brotto insiste sull’altissima biodiversità presente in Italia: «Siamo abituati a gestire la diversità e alla complessità in agricoltura e in cucina, questo è un vantaggio per lottare contro la crisi climatica ma anche nel settore industriale e nelle esportazioni. La nostra è una cucina è legata a carboidrati, verdure e legumi e i trend di mercato segnalano che i consumi del futuro si stanno muovendo in questa direzione». Serve però una maggiore connessione fra ricerca e impresa, per non far sì che il capitale di conoscenza rimanga incapsulato nella teoria. In questo contesto, sarà interessante vedere le applicazioni pratiche di Agridigit, il programma di digitalizzazione del settore agricolo italiano, finanziato dal ministero delle Politiche agricole e coordinato dal Crea Agricoltura e Ambiente. Con la speranza che il Recovery Plan posa tradursi in un volano per l’agricoltura sostenibile e per tutte le sue diramazioni presenti e future.