La piattaforma ci salverà?

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La piattaforma ci salverà?

La Platform Economy è un modello di business basato sui dati e sull’incrocio tra domanda e offerta in un campo digitale. Le prospettive sono rosee, nonostante la crisi. Ma i problemi di sostenibilità ed equità sono irrisolti.

La Platform Economy è un modello di business basato sui dati e sull’incrocio tra domanda e offerta in un campo digitale. Le prospettive sono rosee, nonostante la crisi. Ma i problemi di sostenibilità ed equità sono irrisolti.

Marco ha prenotato una stanza su una app di home sharing, ha raggiunto Napoli con un bus low cost prenotato online e una volta in camera si è goduto una pizza ordinata su un sito di food delivery. Marco forse non lo sa, ma c’è qualcosa che accomuna tutte queste sue scelte: la piattaforma. E sì perché tutti quei servizi di cui ha usufruito si basano su un modello che ormai da più di dieci anni è noto come platform economy.

Ricercare una sua definizione univoca è impresa assai ardua. Le principali, tuttavia, insistono su un elemento: la piattaforma è un luogo digitale che consente l’incontro su scala globale di coloro i quali mettono a disposizione un bene (produttori) e di chi lo ricerca (consumatori). Dall’agevolato incrocio di domanda e offerta nasce un modello che ormai da anni si è imposto al centro delle scelte aziendali di startup, innovative imprese digitali, ma anche di colossi affermati, impegnati nel ridefinire il proprio business. È quello che un brutto termine di derivazione inglese indica come platformizzazione dell’economia.

Luca Ruggeri è uno startupper, consulente aziendale, esperto di trasformazione digitale e dal 2016 contribuisce al progetto open source Platform Design Toolkit. «La piattaforma – spiega a Changes – è la chiave che consente di esprimere ad un ecosistema preesistente di produttori e consumatori di sfruttare al massimo le sue potenzialità, grazie ad un effetto di rete che rende una piattaforma tanto più appetibile quanto maggiore è la capacità di consumatori e produttori di trovarsi». Che voi siate su Airbnb, su Amazon, su Deliveroo oppure su Netflix o Spotify, sappiate che state usando un modello di piattaforma che non fa altro che incrociare i vostri desideri (una casa, un libro, la cena da ordinare o un film da guardare) con chi ve lo può vendere, affittare o noleggiare.

I dati sono centrali

Il concetto di platform economy o platform capitalism non è nuovo, ma la sua comparsa risale al 2008, proprio all’indomani della crisi che travolse i grandi del capitalismo finanziario internazionale. Le prospettive del settore continuano ad essere interessanti. Lo studio “Unlocking the value of platform economy” del Dutch Transformation Forum prevede che il suo giro d’affari passerà dai 7mila miliardi di dollari del 2018 agli oltre 60mila miliardi nel 2025.

Uno degli elementi principali delle piattaforme è l’interazione pre, durante e post-vendita. È questo che produce i beni più preziosi su cui la piattaforma può contare: i dati. Gli attori della piattaforma non sono come i venditori di un mercato rionale tradizionale che aspettano i clienti al proprio banco, ma sono soggetti attivi e impegnati nel ridefinire il proprio business in base alle richieste manifestate dai consumatori attraverso le loro ricerche, i loro acquisti, oppure i loro feedback. Per questo si parla di piattaforme data driven, ovvero guidate dai dati.

«La piattaforma entra in un ecosistema, lo supporta, lo alimenta, lo modifica, ma per farlo ha bisogno di monitorare i dati prodotti». Sono questi che profilando gli utenti permettono di capire il consumatore e consentono di predire l’andamento futuro dei trend di mercato. Inoltre, i dati diventano anche una preziosa fotografia del settore in cui avviene il rapporto domanda-offerta. «Per questo parliamo di Data Driven Policy, ovvero della promozione di politiche regolatorie dei vari settori che si basano proprio sui dati e sulle loro evidenze».

Ma si basa sui dati anche un altro beneficio intimamente connesso alla platformizzazione dell’economia: quello della sostenibilità economica. Agire conoscendo le esigenze dei consumatori favorisce un’organizzazione del lavoro e dell’approvvigionamento più efficiente e meno rischioso.

Il nodo della gig economy

La platform economy è dunque un modello totalmente win-win? Non proprio. Negli ultimi anni è stato piuttosto intenso il dibattito sulla precarizzazione dei lavoratori della cosiddetta gig economy, l’economia dei mini-lavori, che si basa su un’occupazione a chiamata, intermittente e priva di diritti. Ma precarizzazione, nuove forme di sfruttamento, abbassamento della soglia dei diritti dei lavoratori sono elementi costitutivi di questo nuovo modo di fare economia? «La tecnologia non è mai neutra – dice Ruggeri – ma il problema etico non riguarda il modello economico, ma chi dà forma alla piattaforma. Se questa premia i migliori lavoratori e dà sempre più lavoro a coloro che raggiungono kpi migliori si rischia di marginalizzare gli altri, minando l’equità tra i lavoratori. Una sorta di effetto “cane che si morde la coda” che però “può essere smussato, per esempio, promuovendo un sistema di incentivi e correttivi che combatta queste diseguaglianze. La platform economy ti dice come ottimizzare il business, ma poi sta all’​uomo fare le proprie scelte».

Ma qual è stato l’effetto della crisi da Covid-19 su questo modello di economia? Il distanziamento sociale, il confinamento e le chiusure generalizzate, hanno inferto un colpo pesante al settore. Impossibile non ripensare alle parole di Brian Chesky, Ceo di Airbn, che nel maggio scorso ha annunciato il licenziamento di circa 1900 lavoratori, con una lunga lettera ai dipendenti in cui spiegava la natura della crisi di un settore, quello della ricezione turistica, messo ko dalla crisi da Covid-19. «Lo scenario dal 2020 è improvvisamente mutato – osserva Luca Ruggeri – Non abbiamo più certezze, ma proprio il concetto di platform thinking ci può aiutare, perché ci guida nella costante riorganizzazione della produzione e del rapporto con i consumatori. Inoltre, in questo nuovo mondo c’è spazio oggi per piattaforme che hanno a che fare con problemi complessi, come salute, welfare, reti sociali, aspetti assicurativi. Le domande a cui rispondere potrebbero non essere più soltanto cosa mangio o dove alloggio, ma potrebbero essere per esempio: come posso risolvere l’equità delle cure del mio comune? Sono nuove sfide e tematiche molto elevate, su cui ragionare come piattaforme può essere estremamente utile». ​​​​

Giornalista, pugliese e adottato da Roma. Nel campo della comunicazione ha praticamente fatto di tutto: dalle media relations al giornalismo. Brand Journalist e conduttore radiofonico, si occupa prevalentemente di economia, energia ed innovazione. Oltre la radio ama la storia e la politica estera.