Siamo pronti all’IAcene?
L’intelligenza artificiale è arrivata e non manca giorno che non scopriamo nuove applicazioni. Siamo di fronte a una rivoluzione copernicana al punto che possiamo parlare di IAc
Machine learning e intelligenza artificiale dividono le persone in sostenitori e detrattori del cambiamento. Perché una macchina che pensa fa paura. Changes ne ha parlato con David Orban.
Ottimisti, o pessimisti? Sommerso da previsioni e scenari a lungo termine, il dibattito pubblico sull’impatto dell’innovazione nella società appare ormai dominato da due fazioni avverse. Da una parte i produttori di tecnologie, che marcano comprensibilmente l’accento sulle magnifiche sorti e progressive della società connessa. Dall’altra un movimento di pubblica opinione sempre più trasversale, contraddistinto da timori sufficientemente riassunti nel canovaccio dei più noti film di fantascienza. Ma quali saranno le conseguenze reali dell’accelerazione esponenziale del cambiamento tecnologico? L’uomo perderà il controllo delle tecnologie che sta contribuendo a sviluppare? E il futuro non sarà diventato troppo veloce?
«Per certi versi la paura delle macchine è comprensibile. Naturalmente al momento non c’è garanzia di soluzioni che portino a fiorire le potenzialità umane. Questo è un elemento che non deve essere sottovalutato, soprattutto da chi crede nelle potenzialità della tecnologia», ha spiegato a Changes David Orban, imprenditore, divulgatore e docente alla Singularity University presso la Nasa, in California. «E il periodo in cui potremo aspirare a porre limitazioni sarà breve. L’intelligenza artificiale non si fermerà al livello umano, ma molto presto avrà acquisito l’autonomia decisionale per porsi degli obiettivi in autonomia e articolare soluzioni meglio di noi. Il momento è adesso. L’uomo deve porre le condizioni e disegnare la traiettoria dello sviluppo, per portare le macchine a supportare l’attività umana, anziché danneggiarla».
Del resto le discusse previsioni pongono l’uomo di fronte allo scenario rappresentato dalla cosiddetta “singolarità”. «La singolarità applicata all’evoluzione della società è una dimensione in cui le intelligenze artificiali dominano l’esplorazione scientifico-tecnologica e arrivano a prendere decisioni che trascendano la capacità di decisione umana. Così come accade oggi con le tantissime specie biologiche che abitano Terra, condivideremo il sistema solare con miliardi di intelligenze. È un processo già partito. Ray Kurzweil, scienziato di Google, prevede che nel 2045 riprodurre con hardware e software le capacità del cervello umano costerà 1000 dollari. In realtà potremmo riuscirci già nel 2028, ma costerà ancora troppo», ragiona il docente della Singularity University, già autore di Singolarità: Con che velocità arriverà il futuro (Hoepli, 2015).
L’antidoto più efficace ai timori verso il futuro e le trasformazioni sociali legate allo sviluppo tecnologico, insomma, potrebbe essere la relativizzazione della centralità dell’uomo. In fondo, sostiene Orban, «soffriamo ancora di una ricorrente posizione di sciovinismo, nonostante le numerose rivoluzioni kepleriane che abbiamo subito. Oggi la maggior parte delle persone ha capito che la Terra non è al centro dell’Universo, ma l’intelligenza umana viene intesa ancora come il culmine dell’evoluzione dell’Universo. Non ce ne rendiamo conto, esattamente come un leone che si affanna a cacciare, nonostante gli si faccia notare che si trova all’interno di una riserva gestita dall’uomo. Continui a dirgli che prima o poi mangerà, ma lui continua a cacciare. Anche l’uomo parte da premesse sbagliate, come l’illusione di possedere una superiorità morale e civile rispetto ai popoli antichi. Non siamo migliori dei Romani, abbiamo solo creato le condizioni tecnologiche per raggiungere alcune conquiste sociali. Le macchine intelligenti ci renderanno meno egocentrici e più umani. Rideremo della nostra ingenuità».
Del resto riuscire a relativizzare la posizione e il ruolo dell’uomo nell’Universo, in relazione soprattutto ai contesti storici e alle innovazioni che hanno rappresentato uno spartiacque delle fasi storiche, potrebbe essere la chiave per guardare al futuro con più ottimismo. L’economista David Autor, in un suo intervento al TedX, sovrappone la figura dell’agricoltore agli inizi del Novecento, con il ruolo dell’uomo circondato oggi dai robot. «Immaginiamo per un attimo di tornare ai primi del Novecento e dire a un agricoltore dell’epoca che nel giro di un secolo i contadini caleranno dal 40% al 2% della forza lavoro. La reazione più plausibile sarebbe «E tutti gli altri? Cosa mangeranno? Di cosa vivranno?», si domanda e la risposta è semplice: faranno un lavoro che non è stato ancora inventato. Oggi l’uomo sembra vivere una condizione simile, in cui l’affannosa ricerca della previsione più azzeccata, gli impedisce di riconoscere come l’evoluzione della specie viva alcuni passaggi obbligati, in cui l’adattabilità assume un ruolo centrale e un valore inestimabile.
La duttilità dell’uomo, probabilmente, rappresenta l’unica capacità a prova di plagio rispetto all’avanzata delle macchine. «L’uomo ha dimostrato storicamente di possedere la capacità di rompere regole che alcuni immaginavano di essere costretti a rispettare», ha detto Orban. «Monogami o poligami, democratici o dittatori: abbiamo creato società umane di diversi tipi». Che cosa è utile? Siamo sempre in grado di rivalutarlo, secondo Orban. E una società aperta è la migliore garanzia per incentivare il cambiamento, nonostante alcuni adattamenti possano rivelarsi molto lenti. L’economia non è un sistema chiuso, ma una struttura aperta, in cui gli uomini dotati della caratteristica di rivalutare le regole adottate, sono predisposti a trovare nuove soluzioni. «L’automazione non ci ruberà per forza qualcosa. Abbiamo la concreta opportunità di far fiorire potenzialità umane che prima erano semplicemente inespresse» ha sottolineato Orban. Un pensiero critico e una formula efficace per sopravvivere almeno al prossimo kolossal fantascientifico.