Automotive: i vantaggi dell’economia circolare
Tutti noi conosciamo il termine di obsolescenza programmata, ovvero una progettazione finalizzata a far durare un dispositivo soltanto per un certo numero di anni, oppure di operaz
È made in Italy il primo progetto che mette la tecnologia al servizio della società civile rivalutando i rapporti umani e mettendo al centro le persone. Un modo per essere sempre connessi, senza esserlo.
L’ultima iniziativa è stata rimettere in sesto una decina di biciclette abbandonate dagli studenti fuori sede, ormai laureati, che hanno lasciato Bologna. Il concetto è quello del bike sharing, la differenza è che per prendere la bicicletta non si va ad un totem e non si striscia con la carta di credito. Tutto quello che si deve fare è suonare al campanello del vicino di casa, come si faceva nel secolo scorso. La sharing economy fatta dall’incontro delle persone è un fenomeno tutto italiano che sta diventando anche un nuovo prodotto da esportazione made in Italy. L’idea è nata proprio a Bologna, in via Fondazza, da Federico Bastiani, che tre anni fa cercava compagni di gioco per il figlio di 3 anni, e invece ha trovato un quartiere e ha dato il via al fenomeno della social street, dove le persone hanno tante cose da condividere: dalla spesa per i vicini anziani alle ripetizioni, dall’utilizzo della lavatrice al baby sitting fino al cinema. Il quartiere è diventato social e ha aggregato persone che si aiutano a vicenda fuori dal mondo virtuale.
Le social street sono tutto questo e anche di più. E da Bologna, che ha creato un manifesto a cui si può aderire, le strade di quartiere si sono diffuse in tutta Italia e sono in continuo aumento e non potrebbero esistere se non fosse per Facebook. I social, queli virtuali, servono. «La componente off line è comunque più forte di quella online», ha voluto sottolineare Bastiani. «Per noi lo smartphone è un mezzo per avvicinare le persone e creare un rapporto umano».
Tanto che il fenomeno delle strade sociali che dominano la tecnologia, piuttosto che subirla, è al centro di un’indagine sociologica di un gruppo di ricercatori e studenti dell’Università Cattolica di Milano. Alla guida c’è Cristina Pasqualini, ricercatrice di sociologia alla Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, che ha fortemente voluto questa prima indagine nazionale, scientifica, partecipata, oltre che auto-finanziata. Il risultato è un Osservatorio sulle Social Street che mette in evidenza numeri e comportamenti per ora solo italiani che però stanno diventando un fenomeno da esportazione. «Stiamo analizzando questa rete sociale dal gennaio del 2014 in Italia e nel resto del mondo» ha detto Pasqualini. «C’è il manifesto di Bologna, a cui non è obbligatorio aderire, e c’è un portale di Social Street International. Ma ogni esperienza va valutata come singolo caso». E i casi, secondo l’analisi dei ricercatori dell’Università Cattolica, sono diversi con un minimo comun denominatore: tutte le esperienze nascono senza scopo di lucro, ispirate all’economia del dono. Ad ottobre 2016 in Italia e nel resto del mondo si contano circa 454 social street (erano già 149 a gennaio 2014, data del primo censimento).
Milano è la capitale (74 in totale di sui 64 sono attive e 10 chiuse/inattive, ovvero sono mesi che nessuno posta/fa niente, ma potenzialmente riattivabili in qualsiasi momento; più 13 in in provincia), poi c’è Bologna (65 in città più altre 10 in provincia), seguita da Roma (33 in città e 11 in provincia), Torino (15 in centro e 5 in provincia), Firenze (11) e Napoli (2). La geografia dice che più si scende verso Sud meno il fenomeno è presente. La ragione? Secondo Pasqualini è fisiologico e descrive bene il tessuto sociale. «Chi genera una social street è perché non si riconosce nella rete sociale della città e cerca di crearne una su misura, più umana. Ha bisogno di ricostruire legami sociali caldi, tipici delle comunità, che probabilmente ha già sperimentato in altri contesti territoriali», ha sottolineato Pasqualini. «Sono persone che non ci stanno e vogliono un modo di vivere più sociale e sempre meno virtuale». E sono sempre di più. La prova è nei numeri raccolti dall’Osservatorio dell’Università Cattolica: gli iscritti ai gruppo Facebook di Milano sono oltre 30 mila, a Bologna sono oltre 12 mila, a Roma 5.500 circa, a Torino quasi 3.500. Ma non si tratta solo di numeri. «Ci sono delle esperienze uniche di rete sociale in città che magari non contano tanti iscritti ma hanno avuto un’idea originale», ha detto Pasqualini. Un caso, per esempio, si trova a Trento, che al momento ha 3 gruppi per complessivi 700 iscritti. Nello specifico, il gruppo San Pio X ha scelto di darsi un obiettivo relazionale accanto a quello di rendere più bella la città con iniziative mirate. Questo è importante perché, secondo Pasqualini, la rigenerazione dei quartieri, soprattutto le periferie, non può riguardare solo il paesaggio urbano, ma anche il tessuto sociale di vicinato. Coniugare questi due aspetti è la vera sfida. In definitiva, le social street sono un modello che può essere replicato. La prova è che stanno diventando una nuova forma di made in Italy da esportazione. «Chi passa da Milano e Bologna si accorge delle potenzialità e tenta di replicare l’esperimento a casa propria», ha detto Pasqualini che nell’Osservatorio ha conteggiato almeno 18 social street straniere, tra cui 3 veramente interessanti: Varsavia che è nata sul modello della social di Viale Odisseo di Pomezia (122 iscritti a ottobre 2016), Amsterdam (140 iscritti) e Glenduan in Nuova Zelanda (110 iscritti), fondata da un insegnante neozelandese he ha vissuto per un periodo in via Fondazza a Bologna. Quando escono dall’Italia, secondo l’analisi dell’Università Cattolica, le social street prendono forme diverse, ma l’intento resta lo stesso: connettere gratuitamente i vicini di casa.